La differenza di essere donna

Ricerca e insegnamento della storia

Zona: Temi

Né donne private né donne pubbliche: il personale è politico, María-Milagros Rivera Garretas.
    Documenti:
  • Liber manualis. Dhuoda.
  • Sapienza. Hrotsvitha de Gandersheim.
  • Nota autografa sulla salute della sua amica e consigliera Donna Juana de Mendoza. Isabella I di Castiglia.

Liber manualisflechaDhuoda.

Frammenti
Edizioni

Dhuoda, Manuel pour mon fils , introd., testo e note di Pierre Riché, trad. francese di B. Vregille e C. Mondésert, Parigi, Du Cerf, 1975. (“Sources Chrétiennes”, 225).

Dhuoda, The Liber Manualis of Dhuoda: Advice of a Ninth-Century Mother for Her Sons , testo e trad. inglese di Myra Ellen Bowers. Tesi di dottorato. Catholic University of America, 1977.

Dhuoda, Educare nel Medioevo. Per la formazione di mio figlio. Manuale , testo e trad. italiana di Gabriella Zanoletti, Milano, Jaca Book, 1982.

Traduzioni

Duoda, De mare a fill. Escrits d’una dona del segle IX , trad. catalana di Mercè Otero Vidal. Barcellona, La Sal, 1989.

Dhuoda, Handbook for William: A Carolingian Woman’s Counsel for Her Son , trad. inglese di Carol Neel. Lincoln e Londra, University of Nebraska Press, 1991.

Dhuoda, La educación cristiana de mi hijo , trad. spagnola di Marcelo Merino. Pamplona, Eunate, 1995.

Regesto
Dhuoda, contessa di Barcellona e marchesa di Settimania, invita suo figlio Guglielmo a leggere con frequenza il libro che lei gli scrive per alleviare il dolore della separazione e affinché ricordi sempre che in esso troverà la testimonianza della sua nascita e anche tutto il sapere di cui avrà bisogno per essere utile al mondo e per raggiungere la felicità spirituale.
Traduzione

In nome della Santa Trinità

Incomincia il libro Manuale che Dhuoda dedicò a suo figlio Guglielmo.

La maggior parte delle madri di questo mondo può godere della vicinanza delle sue creature, mentre io, Dhuoda, sono tanto lontana da te, figlio mio Guglielmo, e perciò piena di ansia e di desiderio di esserti utile; così ti invio questa piccola opera scritta a mio nome, affinché tu la legga per tua formazione; sarò felice se, pur essendo io assente fisicamente, proprio questo libretto ti riporterà alla mente, quando lo leggerai, ciò che devi fare per me.

[...]

Prologo

A molti appaiono evidenti tante cose che a me si nascondono; se anche le mie simili mancano di intelligenza, hanno una percezione turbata, a dir poco, io di più. Però è sempre presente Colui che apre la bocca dei muti e rende eloquenti le lingue delle bambine e dei bambini (Sapienza, 10, 21). Io, Dhuoda, benché di fragile sentire, indegnamente vivendo fra degne donne, tuttavia sono tua madre, figlio mio Guglielmo, e a te rivolgerò adesso le parole del mio manuale, affinché, come il gioco dei dadi appare in un certo periodo il più adatto per i giovani tra tutte le altre arti mondane, o anche, come alcune donne hanno l’abitudine di esaminarsi il viso allo specchio per eliminarne le impurità e mostrare il suo fulgore, poiché mettono ogni cura nel piacere ai loro mariti nel mondo, così io chiedo che tu, quando sarai oppresso dalla moltitudine degli impegni mondani e secolari, legga di frequente questo libretto che io ti rivolgo, e, in memoria di me, come se fosse cosa di specchi o di gioco dei dadi, non lo trascuri.

Anche se avrai sempre più libri, prenditi spesso il piacere di leggere questa mia piccola opera, e con l’aiuto di Dio onnipotente, possa tu comprenderla e trarne profitto. Vi troverai, in breve, quanto desideri conoscere; vi troverai anche uno specchio nel quale potrai contemplare senza incertezze lo stato di salute della tua anima, in modo che tu possa piacere non solo al mondo, ma in tutto a colui che ti formò dal fango (Genesi 1, 7); poiché in tutto ti è necessario, figlio mio Guglielmo, affinché in entrambi i compiti tu ti mostri tale da poter essere utile al mondo, e il tuo valore sia tale da piacere a Dio in ogni cosa.

Ciò che mi sta più a cuore, o figlio Guglielmo, è rivolgerti parole di salvezza, tra le quali il mio cuore ardente e vigile brama che tu abbia la testimonianza della tua nascita con l’aiuto di Dio, annotata in questo libretto per mio desiderio, come è più utilmente ordinato in ciò che segue.

Trascrizione

In nomine Sanctae Trinitatis

Incipit liber Dhuodane Manualis quem ad filium suum transmisit Wilhelmum.

Cernens plurimas cum suis in saeculo gaudere proles, et me Dhuodanam, o fili Wilhelme, a te elongatam conspiciens procul, ob id quasi anxia et utilitatis desiderio plena, hoc opusculum ex nomine meo scriptum in tuam specietenus formam legendi dirigo, gaudens quod, si absens sum corpore, iste praesens libellus tibi ad mentem reducat quid erga me, cum legeris, debeas agere.

[...]

Incipit prologus

Multis plura patent, mihi tamen latent, meae quoque similes, obscurato sensu, carent intellectu, si minus dicam, plus ego. Adest semper ille qui ora aperit mutorum et infantium linguas facit disertas. Dhuoda quanquam in fragili sensu, inter dignas uiuens indigne, tamen genitrix tua, fili Wilhelme, ad te nunc meus sermo dirigitur manualis, ut, ueluti tabularum lusus maxime iuuenibus inter ceteras artium partes mundanas congruus et abtus constat ad tempus, uel certe inter aliquas ex parte in speculis mulierum demonstratio apparere soleat uultu, ut sordida extergant, exhibentesque nitida, suis in saeculo satagunt placere maritis, ita te obto ut, inter mundanas et saeculares actionum turmas oppressus, hunc libellum a me tibi directum frequenter legere, et, ob memoriam mei, uelut in speculis atque tabulis ioco, ita non negligas.

Licet sint tibi multa adcrescentium librorum uolumina, hoc opusculum meum tibi placeat frequenter legere, et cum adiutorio omnipotentis Dei utiliter ualeas intelligere. Inuenies in eo quidquid in breui cognoscere malis; inuenies etiam et speculum in quo salutem animae tuae indubitanter possis conspicere, ut non solum saeculo, sed ei per omnia possis placere qui te formauit ex limo; quod tibi per omnia necesse est, fili Wilhelme, ut in utroque negotio talis te exibeas, qualiter possis utilis esse saeculo, et Deo per omnia placere ualeas semper.

Sunt mihi curae multae, ad te, o fili Wilhelme, uerba dirigere salutis, inter quas ardens et uigil meus aestuat animus, ut tibi de tua, auxiliante Deo, natiuitate, in hunc codicem libelli ex meo desiderio habeas conscriptum, sicut in sequentibus est utiliter praeordinatum.

SapienzaflechaHrotsvitha de Gandersheim.

Brano
Edizioni

Hrotsvithae opera , ed. di Conrad Celtius. Norimberga, 1501.

Hrotsvithae opera , ed. a cura di Paul von Winterfeld. Berlino, 1902: ripubblicata in Monumenta Germaniae Historica, Scriptores rerum germanicarum, in usum scholarum . Berlino, Weidmann, 1965.

Hrotsvithae opera , ed. di Karl Strecker. Lipsia, 1906.

Hrotsvithae opera , ed. e trad. tedesca di Helene Homeyer. Monaco, Paderborn e Vienna, 1970.

Rosvita, Dialoghi drammatici , testo e trad. italiana di Ferruccio Bertini, introd. di Peter Dronke. Milano, Garzanti, 1986.

Hrotsvitha de Gandersheim, Los seis dramas , ed. e trad. spagnola di Luis Astey. Messico, Fondo de Cultura Económica, 1990.

Traduzioni

Rosvita, Tutto il teatro , trad. italiana di Carla Cremonesi. Milano, Rizzoli, 1952.

Hrotsvitha de Gandersheim, Obras dramáticas , trad. spagnola di Julián Pemartín e Fidel Perrino. Barcellona, Montaner y Simón, 1959.

Rosvita de Gandersheim, Dramas , trad. di Andrés José Pociña López. Madrid, Akal, 2003.

Regesto

Rosvita, canonichessa di Gandersheim, in un dialogo tra l’imperatore romano Adriano e il suo consigliere Antioco descrive il pericolo che può comportare per lo Stato -la massima espressione del pubblico, in Occidente- l’arrivo nella capitale dell’impero di una donna cristiana -chiamata Sapienza- che, accompagnata dalle sue tre figlie, predica alle donne di non mangiare con i loro mariti né dormire con loro.

Traduzione

Nel palazzo di Adriano a Roma

ANTIOCO, ADRIANO, SAPIENZA, FEDE, SPERANZA, CARITÀ

ANTIOCO: Poiché desidero di cuore, o imperatore Adriano, che il favorevole succedersi degli eventi aumenti, secondo i tuoi voti, il tuo potere, e che lo stato dei tuo impero sia felice e senza turbamenti, voglio estirpare ed eliminare il più presto possibile tutto ciò che penso possa turbare lo stato o ferire la tranquillità della tua mente.

ADRIANO: E non sbagli, perché la nostra prosperità fa la tua fortuna, dato che non cessiamo di innalzarti, giorno dopo giorno, a cariche sempre più alte.

ANTIOCO: Rendo grazie alla tua generosità; quindi, se vedo che sorge qualcosa che mi sembra ostacolare la tua potenza, non te la nascondo, ma senza indugio te la comunico.

ADRIANO: E fai bene; così non sarai accusato di lesa maestà per aver nascosto ciò che non si deve nascondere.

ANTIOCO: È un delitto che non ho mai commesso.

ADRIANO: Lo so; ma se sai qualcosa di nuovo, dimmelo.

ANTIOCO: Una donna, una straniera, è arrivata da poco in questa città di Roma, accompagnata da tre creature.

ADRIANO: Di che sesso sono le creature?

ANTIOCO: Tutte di sesso femminile.

ADRIANO: E l’arrivo di qualche donnetta può portare danno allo stato?

ANTIOCO: Sì, molto grande.

ADRIANO: E come?

ANTIOCO: Minaccia la pace.

ADRIANO: In che modo?

ANTIOCO: C’è qualcosa che possa rompere la concordia civile più della differenza di religione?

ADRIANO: Non c’è niente di più grave, niente di più pericoloso, come testimonia il mondo romano, infettato da ogni parte dal sangue impuro dei cristiani.

ANTIOCO: Dunque la donna di cui parlo esorta le nostre ad abbandonare i riti ancestrali e a consegnarsi alla religione cristiana.

ADRIANO: E le sue esortazioni trovano eco?

ANTIOCO: Troppa! Già le nostre mogli ci hanno a noia e ci disprezzano, al punto da rifiutarsi di sedere a tavola con noi e perfino di dormire con noi.

ADRIANO: Riconosco il pericolo.

ANTIOCO: Ti conviene prendere precauzioni.

ADRIANO: È logico. Sia convocata e si discuta in nostra presenza se ha intenzione di cedere.

ANTIOCO: Vuoi che la convochi?

ADRIANO: Lo voglio, certamente.

Trascrizione

ANTIOCHUS, ADRIANUS, SAPIENTIA, FIDES, SPES, KARITAS

ANTIOCHUS: Tuum igitur esse, o imperator Adriane, prosperis ad vota successionibus pollere tuique statum imperii feliciter absque perturbatione exoptans vigere, quicquid rempublicam confundere, quicquid tranquillum mentis reor vulnerare posse, quantocius divelli penitusque cupio labefactari.

ADRIANUS: Nec iniuria; nam nostri prosperitas tui est felicitas, cum summos dignitatis gradus in dies tibi augere non desistimus.

ANTIOCHUS: Congratulor tuae almitati; unde, si quid experior emergere, quod tuo potentatui videtur contraluctari, non occulo, sed impatiens morae profero.

ADRIANUS: Et merito, ne reus maiestatis esse arguaris, si non celanda celaveris.

ANTIOCHUS: Huismodi commisso reatus numquam fui obnoxius.

ADRIANUS: Memini; sed profer, si quid scias novi.

ANTIOCHUS: Quaedam advena mulier hanc urbem Romam nuper intravit, comitata proprii faetus pusiolis tribus.

ADRIANUS: Cuius sexus sunt pusioli?

ANTIOCHUS: Omnes feminei.

ADRIANUS: Numquid tantillarum adventus muliercularum aliquid rei publicae adducere poterit detrimentum?

ANTIOCHUS: Permagnum.

ADRIANUS: Quod?

ANTIOCHUS: Pacis defectum.

ADRIANUS: Quo pacto?

ANTIOCHUS: Et quod maius potest rumpere civilis concordiam pacis, quam dissonantia observationis?

ADRIANUS: Nihil gravius, nihil deterius; quod testatur orbis Romanus, quid undiquesecus christianae caedis sorde est infectus.

ANTIOCHUS: Haec igitur femina, cuius mentionem facio, hortatur nostrates, avitos ritus deserere et christianae religioni se dedere.

ADRIANUS: Num praevalet hortamentum?

ANTIOCHUS: Nimium; nam nostrae coniuges fastidiendo nos contempnunt adeo, ut dedignantur nobiscum comedere, quanto minus dormire.

ADRIANUS: Fateor, periculum.

ANTIOCHUS: Decet tui personam praecavere.

ADRIANUS: Consequens est. Advocetur et in nostri praesentia, an velit cedere, discutiatur.

ANTIOCHUS: Vin me illam advocare?

ADRIANUS: Volo percerte.

Nota autografa sulla salute della sua amica e consigliera Donna Juana de MendozaflechaIsabella I di Castiglia.

Nota autografa
Fonte
Toledo, Archivo Municipal, Caja 1, leg. 2, núm. 64.
Edizioni

Privilegios reales y viejos documentos , 1: Toledo I-XV , Madrid, Joyas Bibliográficas, 1963, nº 13.

Regesto

Tra la fine del 1480 e l’inizio del 1481, Juana de Mendoza era a Medina del Campo con la regina Isabella I. Lì si ammalò gravemente, perciò la regina concesse a suo marito Gómez Manrique una licenza di quindici giorni perché lasciasse Toledo, di cui era podestà reale, e andasse a farle visita. Isabella I aggiunge, a mano, alcune righe che testimoniano il rapporto di affetto e fiducia che la univa alla sua dama di corte e consigliera.

Traduzione
Gómez Manrique, in ogni caso venite subito, che Donna Juana è stata molto male e stava meglio e ha avuto una ricaduta quando le hanno detto che non sareste venuto. Di mia mano. Io la regina.
Trascrizione
"Gómez Manrique en todo caso venyd luego, que donna Juana a estado muy mal y estava mejor y a tornado a recaer, de que la dixeron que no venyades. De mi mano. Yo la Reyna".

Temi: Né donne private né donne pubbliche: il personale è politico

Autrici

María-Milagros Rivera Garretas
María-Milagros Rivera Garretas

María-Milagros Rivera Garretas è nata a Bilbao nel 1947, sotto il segno del Sagittario. Ha una figlia nata a Barcellona nel 1975. È cattedratica di Storia Medievale all’Università di Barcellona, dove ha fondato con altre la rivista e il Centro di ricerca e studi delle donne Duoda, da lei diretti dal 1991 al 2001. Ha anche contribuito a fondare, nel 1991, la Llibreria Pròleg, la libreria delle donne di Barcellona, e nel 2002 la Fondazione Entredós di Madrid.

Ha scritto: El priorato, la encomienda y la villa de Uclés en la Edad Media (1174-1310). Formación de un señorío de la Orden de Santiago (Madrid, CSIC, 1985); Textos y espacios de mujeres. Europa, siglos IV-XV (Barcellona, Icaria, 1990 e 1995; trad. tedesca, di Barbara Hinger, Orte und Worte von Fragüen, Vienna, Milena, 1994 e Monaco, Deutscher Taschenbuch Verlag, 1997); Nombrar el mundo en femenino. Pensamiento de las mujeres y teoría feminista (Barcellona, Icaria, 2003, 3ª ed.; trad. italiana di Emma Scaramuzza, Nominare il mondo al femminile, Roma, Editori Riuniti, 1998); El cuerpo indispensable. Significados del cuerpo de mujer (Madrid, horas y HORAS, 1996 e 2001); El fraude de la igualdad (Barcellona, Planeta, 1997 e Buenos Aires, Librería de Mujeres, 2002); e Mujeres en relación. Feminismo 1970-2000 (Barcellona, Icaria, 2001).

Introduzione

Nella storia e nella politica correnti, c’è un’immagine molto comune per interpretare e spiegare le differenze evidenti tra l’esperienza umana femminile e quella maschile. È l’immagine della “sfera pubblica e sfera privata”. Si dice che la storia e la politica degli uomini si svolgano nella sfera pubblica, la più visibile e importante, mentre quella delle donne resterebbe ridotta alla relativa invisibilità del privato. Questa immagine continua a essere usata oggi acriticamente, nonostante il fatto che le donne sono presenti in tutti i posti della cosiddetta sfera pubblica in cui desiderano esserci; e nonostante il fatto che ormai molti anni fa - nel 1935 - la grande antropologa Margaret Mead scrisse con ironia: “Qualunque cosa facciano gli uomini, anche fosse vestire pupazzi per una cerimonia, appare dotato di maggior valore”. Con questa frase, Margaret Mead mise in ridicolo la pretesa importanza del pubblico, indicando che ciò a cui si dava rilevanza era, in realtà, ciò che gli uomini facevano, qualunque cosa questo fosse.

Per cercare di capire bene quali siano gli interessi che sostengono la dicotomia o antinomia pubblico/privato, la storica Gerda Lerner ne studiò le origini, e scoprì che questa antinomia del pensiero esiste dalle origini del patriarcato, perché è funzionale ad esso. Vuol dire che questa immagine esplicativa della storia e della politica è meno al servizio della verità di quanto non lo sia dell’interesse di alcuni - e, in qualche caso, di alcune - a sostenere questo sistema storico di dominio degli uomini sulle donne. La Lerner dimostrò che per il patriarcato è stata fondamentale la divisione delle donne in private e pubbliche, essendo queste ultime le prostitute: donne che, come tanti uomini pubblici anche se moltissimo meno liberamente di loro, scambiano essere per denaro.

Come siamo state divise, noi donne, in private e pubbliche? Carole Pateman, nella sua tesi di dottorato intitolata Il contratto sessuale, scoprì che alla base delle società patriarcali c’è stato o c’è un patto fondativo che è, in realtà, anteriore a quello che finora si credeva fondare le società umane e che nel XVIII secolo Jean-Jacques Rousseau denominò “il contratto sociale”. Il vero patto fondativo era il contratto sessuale, che consiste in un patto non pacifico tra uomini eterosessuali per distribuire tra loro l’accesso al corpo femminile fecondo.

È per questo che nei rapporti sociali patriarcali le donne entrano con una zavorra che genera disuguaglianza. Ma per fortuna il patriarcato non ha mai occupato la realtà intera e neppure la vita intera di una donna. Perché il sociale è discontinuo, non è sinonimo di storico ma si riferisce a una parte di ciò che è storico, quella parte che è controllata dai rapporti di potere e dominio. Per questo nel secolo XIX G.W.F. Hegel potè scrivere che “il femminile è l’eterna ironia della comunità”. Questo vuol dire che il femminile che eccede e deborda dal patriarcato ne mette in ridicolo la pretesa universalità.

La dicotomia pubblico/privato aiuta, dunque, a spiegare una parte della storia delle donne -cioè, della storia: questa parte è il loro sfruttamento operato dagli uomini, la loro sofferenza, la loro rabbia rispetto agli stereotipi di genere femminile, conseguenza tutto ciò della disuguaglianza tra i sessi. Ma non serve per spiegare veramente l’esperienza umana femminile nel suo insieme, nella sua unità non segmentabile.

La differenza sessuale nella storia

La dicotomia pubblico/privato è stata spezzata dal movimento politico delle donne dell’ultimo terzo del XX secolo con un grido ripetuto instancabilmente nei gruppi di autocoscienza, sui volantini, nelle pubblicazioni, per la strada...: “il personale è politico”. Venne spezzata perché è una dicotomia che perseguita, implacabile, la vita delle donne, nonostante il fatto che le donne si riconoscano ben poco in essa. Perché noi donne giriamo liberamente e senza gerarchie di valore tra i due poli della dicotomia, tra la casa e la strada, tra il tavolo di cucina – su cui alcune hanno scritto capolavori - e l’università, tra un amore e l’altro, tra il giardino e l’amministrazione dello Stato. In realtà, la parousía genuina, la vera apparizione pubblica dell’essere umano, non è propriamente quella della televisione o delle copertine delle riviste, ma è quella che ciascuna bambina o ciascun bambino fa quando esce dal corpo di sua madre al momento della nascita, irrompendo nel mondo.

È molto interessante notare come l’invenzione simbolica “il personale è politico” non si sia limitata a invertire la vecchia dicotomia dicendo “il privato è pubblico”. Per questo è una autentica scoperta di senso: non si limita a invertire i termini dell’antinomia, come farebbe una rivoluzione, ma si colloca in un luogo che è oltre, quasi imprevisto, il luogo della libertà.

Il personale non è, tuttavia, immediatamente politico: in ogni circostanza storica è necessario trovare le mediazioni che facciano del personale qualcosa di politico. I reality show, per esempio, pur essendo sfacciatamente personali, hanno poco o pochissimo senso politico, per cui bisogna ripeterli fino alla nausea, come se in essi si cercasse disperatamente qualcosa che il nostro mondo richiede e non trova. Quello che cerchiamo è proprio la mediazione che faccia del personale qualcosa di politico qui e ora, nel contesto relazionale presente. È questa mediazione -o mediazioni- ciò che ci rende libere, rompendo il terribile meccanismo della ripetizione.

Una mediazione è qualcosa che mette in relazione due cose che prima non lo erano. Come fa il tramezzo (entredós), guarnizione di merletto che unisce due pezzi di tessuto prima separati, creando così qualcosa di nuovo. I testi che ho presentato della marchesa Dhuoda, della canonichessa Rosvita di Gandersheim e della regina Isabella I di Castiglia sono esempi di mediazioni storiche che, ciascuna nel proprio contesto relazionale concreto, riuscirono a fare del personale qualcosa di politico.

Dhuoda trovò nella scrittura di un libro per l’educazione dei suoi figli Guglielmo e Bernardo la mediazione che la mise di nuovo in relazione con i bambini, quando le furono strappati dal padre, che se li portò alla corte carolingia per servirsi di loro nelle sue lotte di potere. In questo modo, il libro mediò tra lei e la corte imperiale, tra il suo amore più intimo e personale e ciò che gli uomini della sua classe sociale - l’aristocrazia - intendevano per politico. Dando così alla politica un altro tono e un altro senso: un senso amoroso, non violento. Dhuoda scrive come una madre che mostra ai suoi figli, tra metafore di giochi di dadi e di specchi, un esempio da seguire che ha come nucleo la cura della relazione, della spiritualità e della vita, non la guerra. L’esempio che Dhuoda propone ai suoi figli è una istanza di un’altra politica, politica che nel femminismo alcune o molte chiamano la politica delle donne.

Rosvita, con l’ironia di cui fu maestra, mette allo scoperto, nel X secolo, l’indole profonda del patriarcato e del contratto sessuale che lo sostiene: l’imperatore Adriano riconosce molto seriamente - mentre l’autrice, esperta nella risata, ride di lui - che lo Stato è in pericolo se le donne sposate disprezzano i loro mariti al punto da rifiutarsi di mangiare con loro e di coricarsi nel loro letto; cioè se le sposate si liberano della eterosessualità obbligatoria (non di quella libera, che comunque esiste). La mediazione trovata da Rosvita per fare di quanto c’è di più personale nel rapporto donna-uomo qualcosa di politico, è la parola, la parola predicata, detta forte e a viva voce per le strade, la parola adatta e necessaria in quel momento storico, essendo la strada lo spazio pubblico e comune per antonomasia.

La preoccupazione di Isabella I per la salute della sua consigliera e dama di servizio Juana de Mendoza fa sì che irrompa nella Storia il mondo delle corti femminili del XV secolo. Queste corti o case reali si muovevano in un regime di scambi proprio; un regime di scambi che era quello del dono, ben poco misurato o significato dal denaro. Le dame della corte non ricevevano abitualmente salari in denaro, come i cavalieri della corte, ma ricevevano regali dalla regina: regali in forma di tessuti, per esempio, o di gioielli, abiti, libri d’ore o altri oggetti di valore. Questo regime di scambi favoriva l’attenzione a ogni singola relazione e aveva bisogno della fiducia. Pertanto l’ambiente assomigliava molto ai rapporti che si stabiliscono in casa, nel privato. Ma allo stesso tempo tutto ciò che accadeva nella corte aveva una grande importanza politica. La medievista Bethany Aram ha anche mostrato, in uno splendido libro dedicato a La reina Juana -un libro che è, finalmente, un’opera storica e non leggendaria sulla cosiddetta Giovanna la Pazza -, che le case reali o corti dei secoli XV e XVI furono il principale significante della capacità di governare di una o un monarca: se la regina o la principessa non riusciva - come accadde a Giovanna I di Castiglia - a governare la sua casa (e suo marito Filippo il Bello finché visse glielo rese difficilissimo), questo voleva dire che il suo popolo non avrebbe avuto fiducia nella sua capacità di governare il paese. Il politico dipendeva, dunque, dal personale, il governo dello Stato dipendeva dal funzionamento della casa.

Quello che noi donne otteniamo quando troviamo le mediazioni perché il personale sia politico, è di stabilire rapporti di fiducia tra ciò che al momento è considerato politico e ciò ne restava fuori, ossia l’altro, l’alterità, o un suo frammento: alterità che irrompe, in primo luogo, nelle case e nella vita personale di una madre o, in minor misura, di un padre, quando una donna dà alla luce una creatura. Spesso l’altro è il femminile libero, che spinge per venire al mondo qualunque sia il contesto storico.

Indicazioni didattiche

A volte, nella storia dell’Occidente, l’altro, l’alterità, si incarna in certi gruppi umani, che possono essere il popolo ebreo o saraceno o zingaro, per esempio. Oggi si incarna nelle straniere, negli stranieri immigrati. Rosvita rappresentò, nel X secolo, l’alterità come il femminile libero portato all’Impero romano da una donna straniera (advena mulier) chiamata Sapienza, che arriva a Roma con qualcosa di diverso da dire, e lo predica pubblicamente.

Può essere utile confrontare in classe il testo di Rosvita di Gandersheim in Sapientia con un brano dell’opera La tomba di Antigone, di María Zambrano (1904-1991). Entrambe - Antigone e María Zambrano - vissero nelle loro esperienze di vita da straniera o di esilio la terribile sofferenza di non poter dare, di non vedere accolto ciò che loro portavano ed erano; cioè sperimentarono la perdita di esistenza simbolica che la tolleranza comporta: perché la tolleranza rispetta democraticamente ma non accoglie, non si apre allo scambio amoroso. In altre parole, soffrirono nel vedersi trasformate, nel paese di arrivo, in un altro da cui non si vuole ricevere nulla, un altro a cui si nega, così, sostanza politica. Scrisse María Zambrano:

Bibliografia: Né donne private né donne pubbliche: il personale è politico
  • ARAM, Bethany, La reina Juana de Castilla. Madrid, Marcial Pons, 2001.
  • CESCUTTI, Eva, Hrotsvit und die Männer. Konstruktionen von “Männlichkeit” und “Weiblichkeit” in der lateinischen Literatur im Umfeld der Ottonen. Munich, Wilhelm Fink, 1998.
  • DRONKE, Peter, Donne e cultura nel medioevo. Scrittrici medievali dal II al XIV secolo (1984), Milano, Il Saggiatore, 1986.
  • LERNER, Gerda, The Creation of Patriarchy. New York e Oxford, Oxford University Press, 1986.
  • LONZI, Carla, Sputiamo su Hegel. La donna clitoridea e la donna vaginale e altri scritti, Milano, Scritti di Rivolta Femminile, 1974.
  • MARTINENGO, Marirí; POGGI, Claudia; SANTINI, Marina; TAVERNINI, Luciana y MINGUZZI, Laura, Libere di esistere. Costruzione femminile di civiltà nel Medioevo europeo. Torino, SEI, 1996.
  • PATEMAN, Carole, Il contratto sessuale, trad. italiana di Cristina Biasini, Roma, Editori Riuniti, 1997.
  • RICH, Adrienne, "Heterosexualidad obligatoria y existencia lesbiana". Duoda. Revista de Estudios Feministas, 10 (1996), 15-45 e 11 (1996), 13-37.
  • RIVERA GARRETAS, María-Milagros, "Catalina de Alejandría, representada en Isabel I de Castilla", in Ana Isabel Cerrada Jiménez e Josemi Lorenzo Arribas (eds.), De los símbolos al orden simbólico femenino (ss. IV-XVII). Madrid, Al-Mudayna, 1998, 137-143.
  • RIVERA GARRETAS, María-Milagros, Mujeres en relación. Feminismo 1970-2000. Barcellona, Icaria, 2001.
  • RIVERA GARRETAS, María-Milagros, Textos y espacios de mujeres. Europa, siglos IV-XV. Barcellona, Icaria, 1990.
  • ZAMBRANO, María, "María Zambrano, intervista di Pilar Trenas (1988)". Duoda, 25 (2003), 141-165.
  • ZAMBRANO, María, La tumba de Antígona, in Ead., Senderos, Barcellona, Anthropos, 1986. (La tomba di Antigone. Diotima di Mantinea, trad. italiana di Carlo Ferrucci, Milano, La Tartaruga, 1995.)

Note al testo

  1. Cit. in María-Milagros Rivera Garretas, Nominare il mondo al femminile. Pensiero delle donne e teoria feminista, a cura di Emma Scaramuzza, Roma, Editori Riuniti, 1998.

  2. Gerda Lerner, The Creation of Patriarchy, Nueva York e Oxford, Oxford University Press, 1986. Gerda Lerner ha definito il patriarcato come “la manifestazione e istituzionalizzazione del dominio maschile sulle donne e sulle bambine e i bambini nella famiglia, e l’estensione del dominio maschile alla società in generale” (The Creation of Patriarchy, 239).

  3. Un articolo molto interessante sulla prostituzione - una questione che tormenta il nostro mondo presente nella sua globalità - è La prostituzione, una caricatura, in Luisa Muraro, La folla nel cuore, a cura di Clara Jourdan, Milano, Pratiche, 2000, 129-131.

  4. Carole Pateman, Il contratto sessuale, trad. italiana di Cristina Biasini, Roma, Editori Riuniti, 1997.

  5. Tra le molte persone che hanno citato questa frase, scelgo Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel. La donna clitoridea e la donna vaginale e altri scritti, Milano, Scritti di Rivolta Femminile, 1974.

  6. Bethany Aram, La reina Juana de Castilla. Madrid, Marcial Pons, 2001.

  7. María Zambrano, La Tumba de Antígona, in Senderos, Barcellona, Anthropos, 1986, 199-265, pagg. 258-259 (La traduzione italiana è nostra [n. d. t.]).

    "Come me, tutti in esilio senza rendersene conto hanno fondato una città dopo l’altra. Nessuna città è nata come un albero. Tutte sono state fondate un giorno da qualcuno che viene da lontano. Un re forse, un re-mendicante cacciato dalla sua patria e che nessun’altra patria vuole, come mio padre che andava guidato dai miei occhi che guardavano e guardavano senza scoprire la città del destino, dove ci aspettasse un posto per noi. E io, entrando in una città, sapevo già, per quanto pietosi fossero i suoi abitanti, per quanto benevolo fosse il sorriso del suo re, io sapevo bene che non ci avrebbero dato la chiave della nostra casa. Mai nessuno si è avvicinato dicendoci: “Questa è la chiave della vostra casa, non avete che da entrare”. C’è stata gente che ci ha aperto la porta e ci ha fatto sedere alla sua tavola, e ci ha offerto un’accoglienza affettuosa, e anche di più. Eravamo ospiti, invitati. E nemmeno siamo stati accolti in nessuna di esse come quello che eravamo, mendicanti, naufraghi che la tempesta getta su una spiaggia come un rifiuto, che è allo stesso tempo un tesoro. nessuno ha voluto sapere che cosa andassimo chiedendo. Credevano che andassimo chiedendo perché ci davano molte cose, ci colmavano di doni, ci coprivano, come per non vederci, con la loro generosità. Ma noi non chiedevamo questo, chiedevamo che ci lasciassero dare. perché portavamo qualcosa che lì, là, dovunque fosse, non avevano; qualcosa che non hanno gli abitanti di nessuna città, quelli che si sono stabiliti; qualcosa che ha solo chi è stato strappato alla radice, l’errante, chi si trova un giorno senza niente sotto il cielo e senza terra; chi ha sentito il peso del cielo senza terra che lo sostenga".

  8. Cit. in María-Milagros Rivera Garretas, Nominare il mondo al femminile. Pensiero delle donne e teoria feminista, a cura di Emma Scaramuzza, Roma, Editori Riuniti, 1998.

  9. Gerda Lerner, The Creation of Patriarchy, Nueva York e Oxford, Oxford University Press, 1986. Gerda Lerner ha definito il patriarcato come “la manifestazione e istituzionalizzazione del dominio maschile sulle donne e sulle bambine e i bambini nella famiglia, e l’estensione del dominio maschile alla società in generale” (The Creation of Patriarchy, 239).

  10. Un articolo molto interessante sulla prostituzione - una questione che tormenta il nostro mondo presente nella sua globalità - è La prostituzione, una caricatura, in Luisa Muraro, La folla nel cuore, a cura di Clara Jourdan, Milano, Pratiche, 2000, 129-131.

  11. Carole Pateman, Il contratto sessuale, trad. italiana di Cristina Biasini, Roma, Editori Riuniti, 1997.

  12. Tra le molte persone che hanno citato questa frase, scelgo Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel. La donna clitoridea e la donna vaginale e altri scritti, Milano, Scritti di Rivolta Femminile, 1974.

  13. Bethany Aram, La reina Juana de Castilla. Madrid, Marcial Pons, 2001.

  14. María Zambrano, La Tumba de Antígona, in Senderos, Barcellona, Anthropos, 1986, 199-265, pagg. 258-259 (La traduzione italiana è nostra [n. d. t.]).

    "Come me, tutti in esilio senza rendersene conto hanno fondato una città dopo l’altra. Nessuna città è nata come un albero. Tutte sono state fondate un giorno da qualcuno che viene da lontano. Un re forse, un re-mendicante cacciato dalla sua patria e che nessun’altra patria vuole, come mio padre che andava guidato dai miei occhi che guardavano e guardavano senza scoprire la città del destino, dove ci aspettasse un posto per noi. E io, entrando in una città, sapevo già, per quanto pietosi fossero i suoi abitanti, per quanto benevolo fosse il sorriso del suo re, io sapevo bene che non ci avrebbero dato la chiave della nostra casa. Mai nessuno si è avvicinato dicendoci: “Questa è la chiave della vostra casa, non avete che da entrare”. C’è stata gente che ci ha aperto la porta e ci ha fatto sedere alla sua tavola, e ci ha offerto un’accoglienza affettuosa, e anche di più. Eravamo ospiti, invitati. E nemmeno siamo stati accolti in nessuna di esse come quello che eravamo, mendicanti, naufraghi che la tempesta getta su una spiaggia come un rifiuto, che è allo stesso tempo un tesoro. nessuno ha voluto sapere che cosa andassimo chiedendo. Credevano che andassimo chiedendo perché ci davano molte cose, ci colmavano di doni, ci coprivano, come per non vederci, con la loro generosità. Ma noi non chiedevamo questo, chiedevamo che ci lasciassero dare. perché portavamo qualcosa che lì, là, dovunque fosse, non avevano; qualcosa che non hanno gli abitanti di nessuna città, quelli che si sono stabiliti; qualcosa che ha solo chi è stato strappato alla radice, l’errante, chi si trova un giorno senza niente sotto il cielo e senza terra; chi ha sentito il peso del cielo senza terra che lo sostenga".

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