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X Coloquio Internacional de Geocrítica

DIEZ AÑOS DE CAMBIOS EN EL MUNDO, EN LA GEOGRAFÍA Y EN LAS CIENCIAS SOCIALES, 1999-2008

Barcelona, 26 - 30 de mayo de 2008
Universidad de Barcelona

TOLLERARE I TOLLERANTI
LA CITTÀ MEDIA EUROPEA: UN’ALTERNATIVA ALLA GLOBALIZZAZIONE

Corrado Poli
Universitat de Bergamo
Johns Hopkins University
Institute for Policy Studies and
Department of German and Romance Languages
corrado.poli@unibg.it
www.corradopoli.net


Tollerare i tolleranti. La città media europea: un’alternativa alla globalizzazione (Resumen)

S’è detto in passato che il processo di modernizzazione terminava inesorabilmente con l’imporsi della modernità. Allo stesso modo altri hanno sostenuto che il processo di urbanizzazione è terminato con la scomparsa della città e l’affermarsi di un tutto urbano. Per la globalizzazione si può dire lo stesso: ormai il processo di evoluzione verso un mondo unico è giunto alla meta. È allora necessario identificare nuovi obiettivi e nuovi processi. Al momento essi non sono ancora visibili, ma un cambiamento radicale è nell’aria. Dopo il periodo post-moderno in cui tutto si definiva sulla base del passato della modernità, oggi si ritiene di essere in una situazione pre-ideologica, alla vigilia della riformulazione di nuove idee sulla spinta dell’emergenza ambientale e della crisi degli Stati nazione. Le città medie europee alcuni piccoli centri americani rappresentano una potenzialità per questo prossimo cambiamento.

Palabras Clave: post-moderno, pre-ideologico, città medie, Europa, U.S.A., ambiente, cittadinanza


To bear the tolerant ones. The European middle city: an alternative to the globalization (Abstract)

The modernization process comes to an end when we achieve modernity that is the final goal of modernization. In the same way the urbanization process terminates with the fusion of the cities in an all-urban world. We can make the same claim regarding the globalization process: the evolution toward a unified world, from the economic and relational point of view (and partly, even, the political), is about to be attained, if not already achieved. Thus, it is necessary to identify new objectives and new processes. At present, these processes and objectives are not yet clearly visible, but a radical change can be expected soon. Instead of following the methods of the post-modern period, when we studied everything on the basis of the past, i.e. modernization/modernity, we now must think in terms of pre-something. We are at the eve of a reformulation and a structuring of new ideas which will provide solutions for the environmental emergency and the crisis of Nation States. Middle-sized European cities and some North American communities have the ability to be harbingers of this incoming change.

Key words: Post-modern, pre-ideological, middle size cities, Europe, U.S.A., environment, citizenship


“La civetta di Minerva vola soltanto al tramonto”,
F. Hegel

Un nuovo computer

Dopo anni di onorato servizio, la memoria del mio vecchio computer cominciò a dare segni di irreversibile senilità. Mi ci volle parecchio tempo e un vero e proprio studio attento per scegliere esattamente il nuovo prodotto con cui l’avrei sostituito. Dovetti visitare numerose pagine web e consultare riviste specializzate. Finalmente, operata la scelta, inviai un messaggio via Internet. Non potevo sapere dove e per quali vie il mio ordine d’acquisto fosse stato materialmente inoltrato. Tuttavia, immaginavo che prima o poi un addetto, ricevutolo, andasse a prelevare il computer in un immenso e ordinato deposito, per poi spedirmelo. Sapevo benissimo che era un’immagine sbagliata, ma per inerzia mentale rimanevo ancorato a questa idea. In effetti, le imprese più efficienti non perdono tempo e denaro a costruire macchine che giacciono, invendute e obsolete, in enormi magazzini. In costosi magazzini. Sarebbe stato press’a poco lo stesso se si fosse trattato di automobili, di arredamento, abbigliamento o altri beni. In realtà, la ditta cominciò ad assemblare il mio computer solo dopo la mia chiamata. Ciononostante lo ricevetti in pochi giorni. Solo allora compresi che mi era stato spedito da Columbia, un sobborgo di Washington a poche miglia di distanza da dove allora abitavo. Sarei potuto andarci in mezz’ora, pensai. Ma allo stesso tempo mi resi conto che tutta l’operazione era stata gestita a quattromila chilometri di distanza da un luogo che conobbi solo allora: per la precisione a Flagstaff, una cittadina di meno di cinquantamila abitanti, nel Nord dell’Arizona. Tutte queste notizie sul luogo da cui era stata gestita l’operazione erano e sono assolutamente irrilevanti, sia per la qualità e il tipo di computer, sia per i tempi di consegna. Il computer rispondeva esattamente alle particolari caratteristiche da me richieste. Se fossi stato in Italia, dove abitualmente vivo, in Russia, in Tailandia o in Messico, le cose sarebbero andate esattamente allo stesso modo. Al più è interessante rilevare che Flagstaff, piccola città un tempo crocevia nel deserto, è oggi un luogo molto piacevole con elevatissimi livelli di qualità di vita e tutela ambientale. Da qualche tempo attira professionisti e imprese a basso impatto ambientale (.com) particolarmente competitive sui mercati globali e nazionali.

L’impresa, da me virtualmente contattata, si conformava al modello della produzione flessibile, celebrato fino a circa dieci anni fa come il tipo più aggiornato della contemporanea organizzazione dell’industria e dei servizi. La componente materiale del bene era piccola cosa rispetto a quella organizzativa, molto più elaborata, che ne permetteva la commercializzazione. Non solo: io stesso ero parte di questo contesto, avendo usato strumenti e procedure complicate e costose per risolvere il mio problema di acquisto. Anzitutto mi era richiesta una notevole conoscenza delle caratteristiche del prodotto. Tale know-how non rientrava nelle mie competenze professionali e ancor meno nella mia istruzione ufficiale. Inoltre, la massima parte delle operazioni svolte non aveva alcun contenuto materiale. Infatti avevo dovuto documentarmi in una materia lontana dalla mia usuale attività. Per questo motivo le informazioni che avevo cercato erano state redatte da specialisti della comunicazione in modo semplice e adatto a non specialisti. Ciononostante avevo appreso un’infinità di utili nozioni. Avevo pagato con la carta di credito a sua volta protetta con sistemi sofisticati per consentire un pagamento sicuro. Lo stesso assemblaggio e invio era avvenuto nel luogo più vicino ed efficiente per il venditore e il cliente. Alla fine il prodotto che avevo ricevuto pesava meno di tre chili e mi giunse con l’usuale Federal Express.

Le istruzioni per l’istallazione e per l’uso, in compenso, richiedevano almeno un giorno di lavoro. Le uniche concessioni alla materialità, oltre al piccolo computer, erano forse il furgone e il petrolio da esso consumato.

La flessibilità

Di produzione flessibile si parla ormai da vari decenni in relazione ai modelli produttivi. Alcune imprese italiane sono state le antesignane di questa nuova organizzazione industriale, studiata, imitata e perfezionata ormai ovunque. Tuttavia il concetto di flessibilità nell’odierna società, travalica i confini angusti dell’organizzazione produttiva. Anzi, la produzione flessibile va considerata essa stessa il derivato di un atteggiamento culturale che permea svariati campi del vivere e del pensare quotidiani. Anni fa l’antropologa Emily Martin pubblicò un noto saggio dal titolo Flexible Bodies: Tracking Immunity in American Culture from Days of Polio to the Age of AIDS [1], in cui si delineano i collegamenti tra il mutamento sociale, economico e politico e le idee che abbiamo di noi stessi e del nostro corpo. Dallo studio emerge che la gente parla dell’esigenza di essere flessibili in campi che vanno dalla fisiologia al comportamento, in termini mentali e persino sotto il profilo spirituale. Con buona pace del Papa contrario al relativismo. La Martin sostiene che oggi siamo affascinati dall’idea dell’immunità. Essa è intesa come un sistema tipicamente flessibile e adattivo. Una specie di mitridatizzazione della società e degli individui. Il timore del cambiamento – inclusa la vecchiaia – viene superato preparandoci ad esso, anticipandolo ed evitandone così le conseguenze negative. Allo stesso tempo la flessibilità è invocata in opposizione alla tradizionale violenza su se stessi, sugli altri e sulla natura per adattare il proprio corpo e tutto il resto all’ambiente [2].

Questo avviene nel caso della tutela e della prevenzione della salute, quando cioè si invita la gente a seguire diete, allenarsi, a tonificare i muscoli, tutto al fine di rinforzare il sistema immunitario. Si tratta, sostiene la Martin, dell’applicazione degli stessi principi adottati nei più avanzati corsi di formazione promossi dalle imprese dove si insegna ai lavoratori e ai manager a essere preparati ai rischi imprevisti, piuttosto che a imporre la propria logica e forza all’ambiente esterno.

Flexible Bodies però è tutt’altro che un’esaltazione di questo atteggiamento ormai comune. L’autrice segnala il rischio della formazione di un vocabolario e di un’ideologia basati sull’affermazione di una nuova forma di Darwinismo sociale in cui verrebbero accomunati i fisicamente deboli - esposti al cancro, all’AIDS e ad altre malattie - con coloro i quali risultano poco adattabili ai cambiamenti che richiede il mercato del lavoro. La flessibilità, inoltre, include la rinuncia a voler modificare il sistema sociale secondo direttive razionalmente elaborate. Ci si adatta al sistema anziché riorganizzarlo secondo esigenze elaborate ed espresse [3]. In sintesi, il desiderio di flessibilità nella nostra epoca potrebbe derivare da una reazione contro il gigantismo e la rigidità delle strutture create dallo sviluppo moderno. O dalla paura di sistemi autoreferenziali ai quali ci si vorrebbe sottrarre, ma di cui si accetta la (temporanea) invincibilità. La flessibilità diventa quindi il tentativo di ricavarsi uno spazio privato nel sistema, senza sovvertirlo, ma sfruttando le potenzialità insite nella capacità di adattamento di strutture più agili e di dimensioni minori. La flessibilità prende atto dei rendimenti decrescenti di scala delle organizzazioni che da tempo sono subentrati a quel processo di accorpamento che rendeva economiche le grandi dimensioni. Oltre una certa soglia, oggi le economie di scala, a fronte di una teorica efficienza - peraltro non sempre provata - ingigantiscono tutta una serie di problemi collaterali fino far a perdere il controllo del processo complessivo.

Allo stesso tempo le grandi concentrazioni si realizzano in altri settori. Esse dominano sempre più a livello finanziario e negli imperi della comunicazione tendendo a un rigido controllo, non solo del mercato, ma anche di gusti e comportamenti. La nuova frontiera del mutamento dovrebbe allora procedere nella frantumazione di questi monopoli finanziario-comunicativi sollevando la questione dell’identità e dell’originalità.

Globalizzazione e globalità: la grande semplificazione contemporanea

In realtà il mondo contemporaneo è il frutto di una grande semplificazione e di una crescente rigidità. Emblematica è la riduzione progressiva delle specie vegetali e animali che provoca una crisi ambientale a fronte di alte produttività in quei pochi beni che possono essere monetizzati. Lo stesso vale per le lingue e le culture. Per non parlare delle tecniche e delle architetture.

La parola globalizzazione indica un processo in corso. Questo processo potrebbe arrestarsi una volta conseguito un sistema davvero globale. In effetti la globalizzazione è stata l’ultima frontiera della modernizzazione che oggi si è estesa a tutto il mondo. Avendo ormai costruito un sistema globale, ora è il momento di passare a una nuova fase, quella del post-globale. La ricostruzione di comunità e di sistemi sempre più autonomi rappresenta una via possibile e probabile. Le città medie europee e alcune comunità americane costituiscono l’avanguardia di questo movimento di secessione urbana e di neo comunitarismo. Il desiderio di diversità e di “secessione” dal modello globale è sentito da numerosi cittadini che sarebbero pronti ad assumere comportamenti non-globali, cioè non standardizzati alla cultura e al sistema economico globale. Negli Stati Uniti sono stati definiti “Cultural Creatives” e rappresenterebbero un quinto della popolazione.

In massima parte, soprattutto negli Stati Uniti, si tratta di persone appartenenti alle classi medio alte di reddito e di cultura. La tesi che si esprimerà in seguito è che su di esse va fatto affidamento. Solo costoro hanno la capacità di innovare e di liberarsi dalla schiavitù del sistema globale proponendo modelli indipendenti focalizzati su un nuovo rapporto con l’ambiente radicalmente diverso dall’attuale e da una nuova idea di cittadinanza.

In un certo senso, favorire queste classi sociali, andrebbe nell’interesse dell’intera società e quindi delle classi più esposte ai rischi della globalizzazione – bassi salari, inquinamento, carenza di ordine pubblico, ecc. In termini teorici, si potrebbe citare John Rawls e la sua teoria della giustizia: le differenze di reddito sono giustificabili se vanno a vantaggio dei più bisognosi. Allo stesso modo, una politica che favorisce la formazione di comunità di ceto sociale medio alto, mosse dal desiderio di proporre modelli di vita non in conflitto con la natura e aperti a nuove idee di cittadinanza, consentirebbe un cambiamento altrimenti impossibile.

Città flessibili di domani: la tesi

Il tema della flessibilità ricorre, sotto vari aspetti, anche in rapporto alla città. Se ne può parlare in termini sociali, ambientali, politici, economici, demografici. Oppure sotto il profilo estetico, architettonico e tecnologico. Insomma, in tutti quei termini molto ampi in cui si affronta usualmente il fenomeno urbano. Eppure di flessibilità in relazione alle politiche urbane non se ne parla a sufficienza. Anzi, per molti aspetti esiste un’inerzia nell’applicazione di soluzioni tradizionali che nel mondo dell’impresa privata è stata in gran parte superata. Si pensi, ad esempio, alla reiterazione di grandi opere e strutture pubbliche quali il trasporto pubblico urbano e l’offerta di servizi da parte di imprese che tendono ad accorparsi con la scusa dell’efficienza gestionale. Per non parlare dei reiterati tentativi di creare governi unici di vaste aree metropolitane.

La tesi che si sostiene è la seguente: nelle politiche urbane contemporanee l’idea di flessibilità non è stata ancora recepita a sufficienza. Eppure la soluzione di molti problemi della città contemporanea passa per la flessibilità e la de-materializzazione.

Si tratta del ritardo del settore pubblico che in questo periodo storico rappresenta la conservazione, tanto quanto, talora, in passato si pose alla testa dell’innovazione e del progresso. Di conseguenza qui si sostiene che le novità nei prossimi decenni potranno giungere soltanto da comunità particolari ed elite. La politica più progressista e illuminata possibile non può che limitarsi a favorire la creazione di spazi fisici e sociali per la libera creatività ed espressione dei gruppi sociali più diversi. Il palcoscenico per questi gruppi innovativi è da sempre la città. Tra le città, quelle europee di piccole e medie dimensioni sono nelle condizioni migliori per opporsi all’uniformizzazione globale: in esse si possono ricavare gli spazi per la compresenza di diversità organizzative, tecnologiche e sociali.

La “condizione postmoderna”

Lo stato d’animo alquanto depresso di molti contemporanei è stato imputato spesso alla condizione in cui versa l’umanità: quella che è stata definita una “condizione postmoderna”. O, come parafrasa il geografo David Harvey, “della postmodernità”. Come si desume dalla parola, la “condizione postmoderna” si definisce con quello che non è più – moderna – senza poter ancora dire quello che è. Ora si potrebbe benissimo pensare, come fanno ancora in molti, che questa crisi sia solo passeggera e presto i principi di una razionalità unica e oggettiva riprenderanno quella forza che si è temporaneamente attenuata. Vale a dire che le critiche strutturali al modello moderno e razionalista non alterano la linea evolutiva della società così come s’è da qualche secolo articolata.

In ogni caso, proprio da un punto di vista razionale, non si può negare che la critica alla modernità sia montante e costituisca un fenomeno con cui ci si deve oggettivamente confrontare. E se ancora si vuole pensare a questa critica come a un incidente di percorso nell’evoluzione dello spirito (!), almeno si dovrebbe ammettere – parlando in termini più sociologici e meno filosofici – che le maggiori istituzioni moderne hanno perso gran parte della loro forza. In quanti credono ancora agli scienziati “certificati” e alle grandi istituzioni scientifiche? Chi attribuisce piena fiducia alle istituzioni democratiche?

Il problema contemporaneo non è quindi se accettare o meno la post modernità come un’evoluzione inevitabile, auspicabile o, al contrario, come un fenomeno da contrastare. Piuttosto si tratta di comprendere come vivere questa fase storica e trattare i problemi tenendo conto della presunta crisi della razionalità classica, della proliferazione concomitante dei paradigmi interpretativi e del relativismo etico. Un’impostazione critica razionale, proprio per la sua presunta superiorità etica, non può dunque prescindere dal tenere in considerazione il dato sociale più importante: la diffusione del relativismo, sia nella vulgata, sia nelle sue versioni più elaborate. Solo in questi termini il pensiero razionale ha qualche possibilità di imporsi al discorso postmoderno nelle sue diverse accezioni. Sempre che questo lo si consideri utile, necessario e possibile. Lo si voglia o no, la flessibilità e la debolezza del pensiero permeano ormai il linguaggio e le prassi. E non è facendo proclami di solidità, coerenza e convinzione, né mostrando i muscoli (che non si hanno), che si può aver ragione del problema.

Inoltre, è evidente come il discorso sul post moderno sia ormai esaurito e sostituito da quello sulla globalizzazione e sull’impero senza avversari esterni. Da una parte la globalizzazione è un’estensione del processo di modernizzazione e quindi della forma estrema di conservatorismo del mutamento (conservatism in continuos changing). Dall’altra non vale la pena parlare ancora di post moderno, avendolo fatto per ormai qualche decennio, ma occorre passare a una fase da definire pre-ideologica.

I criteri guida del saggio: positivisti ingenui e relativisti culturali

In quanto geografo descriverò la città in prospettiva storica proponendo un’interpretazione. Ne evidenzierò le caratteristiche sociali e spaziali. Come pianificatore cercherò di individuare un metodo che si presti a intervenire sui processi in corso. Tale metodo, non si basa su una razionalità a priori, astratta e decontestualizzata. Piuttosto si adatta ai valori sociali correnti, alle mentalità e agli interessi in conflitto.

Coerentemente alla dichiarata incapacità di risolvere il problema contemporaneo del rapporto spazio-tempo, anticipo un (post)pregiudizio, o più precisamente un pregiudizio che ho scoperto a posteriori di avere. Tutto lo studio è basato sull’idea che sia necessario prendere atto delle nuove e atipiche diversità oggi presenti nelle città e nella società in modo da trovare il fondamento per ricreare comunità urbane su basi nuove. In questa ottica si dovranno discutere i concetti di diversità e tolleranza nonché elaborare una nuova idea di cittadinanza [4].

Oggi, si scontrano due gruppi di opinione senza possibilità di dialogo a causa di una reciproca incomprensione. Da una parte si colloca chi pensa ancora secondo i canoni della modernità invecchiata e per certi versi già decrepita. Costoro sono frustrati dal fatto che non riescono più a imporre il proprio pensiero, finora da essi considerato unico e globale, se non nei dettagli, almeno nel metodo e nell’impostazione. Essi ritengono che la linea di sviluppo definita ormai secoli fa e da allora continuamente seguita, non dovrebbe essere abbandonata avendo ancora molte possibilità di portare progresso e benessere. Il progresso tecnico sarebbe la via più indicata per la soluzione dei nuovi problemi. Il mutamento sociale e materiale è continuo e profondo, ma completamente interno alla tecnologia da tempo adottata. L’atteggiamento di costoro è improntato a un assoluto disprezzo per cambiamenti radicali e per quelle utopie che propongono palingenesi basate su valori e credenze alternative. Non si accorgono che la modernità, in opposizione alla modernizzazione, è in sé un’utopia che li ha guidati per secoli e ancora continua ad affascinarli. Quando era ancora utile studiare la modernizzazione e la modernità, è stato acutamente affermato che il conseguimento della modernità poneva fine al processo di modernizzazione. Ma così veniva a mancare il nemico, cioè quella tensione al cambiamento costante e alle trasformazioni critiche di una tradizione dominante da cancellare. Una volta cancellato il dominio della tradizione e della superstizione, della comunità e della campagna, non c’era più bisogno della modernizzazione. Ma a questo punto la modernità senza modernizzazione, diventava statica tanto quanto la tradizione: e negava se stessa.

Dall’altra parte sta l’allegro, composito e indefinibile mondo dei postmoderni. Essi criticano il pensiero unico della modernità e l’incapacità degli strumenti concettuali e materiali da essa creati di risolvere i problemi emergenti, alcuni dei quali determinati proprio dalla stessa modernità. Costoro non hanno nel proprio vocabolario la parola “frustrazione” poiché piuttosto assumono un atteggiamento minimalista e rifiutano ogni enfasi sulla possibilità di giungere a soluzioni definitive per i problemi correnti. La stessa possibilità di individuare una qualche soluzione a qualsivoglia problema è considerata con scetticismo. Il paradosso dei postmoderni è un’”enfasi” posta sull’understatment [5]. Questi sono coloro i quali non solo operano localmente e trascurano ogni visione generale, ma rifiutano ogni tentativo di inquadrare teoricamente quello che fanno.

Succede così che, coloro i quali si definiscono persone pratiche, siano tanto i razionalisti assoluti e ingenui, quanto i relativisti culturali. Essi condividono tra loro molto più di quanto non credano e i risultati lo provano. Fondamentalmente, condividono l’assoluta mancanza di fiducia in un pensiero critico capace di costruire la realtà sociale. La stessa parola “realtà” pone ai secondi dei seri problemi, mentre i primi non si pongono il minimo dubbio su cosa sia reale e come la realtà si formi nelle menti degli attori sociali e fuori di esse. Il risultato da una parte è un falso conflitto, dall’altra un’assoluta mancanza di comunicazione. In effetti, il conflitto sarebbe una forma di comunicazione. Ne segue che, se il conflitto è falso, non può esserci comunicazione. Questo è uno dei problemi della staticità e del conservatorismo della città contemporanea. Anziché tentare una mediazione ragionata che accetti il reale peso delle forze intellettuali in campo, nel rispetto reciproco, ci si batte su falsi problemi tecnico-pratici senza tentare alcuna condivisione di ragionamento approfondito sulle questioni fondamentali. In altre parole, solo il riconoscimento degli altri consente un’efficace azione di advocacy e di conflitto costruttivo. Rifiutando ogni dialogo sulle questioni essenziali, non è possibile acquisire alcun controllo sul mutamento. Questa colpa è equamente distribuita tra i relativisti e i modernisti più ingenui.

La vera utopia contemporanea diventa la convivenza di diverse utopie e quindi la capacità di elaborare contesti spaziali e sociali in grado di garantire a esse la possibilità di esprimersi. Difficilmente, altrimenti, si potrebbe pensare di far prevalere l’una o l’altra idea finale e ancor meno si potrebbe pensare di possedere un metodo unico per elaborarle. L’unica utopia possibile – a sua volta utopica – è la costruzione di questo metodo di conflitto pratico in quanto interattivo. La saggezza comune – che spesso si confonde con l’ignavia e la codardia – ha preso oggi il sopravvento sul radicalismo intellettuale molto comune nell’epoca d’oro della modernità. Si sente spesso affermare che tra due posizioni estreme, la via di mezzo sia la migliore. In medio stat virtus. Ma di virtù, in questo caso, ce n’è proprio poca poiché si sceglie questa opzione solo in quanto la mediazione è la più praticabile delle strade. Sarebbero possibili due altre soluzioni virtuose e ancora rispettose delle diversità. Esse hanno grande dignità sia nella filosofia politica, sia nell’etica riferita ai temi ambientali.

L’una sostiene che la virtus non sta necessariamente nel mezzo e tanto meno dall’una o dall’altra parte. Piuttosto si manifesta nell’alternanza delle posizioni, per quanto estreme. L’altra – che attenua la radicalità possibile in questa alternanza – assume che ogni decisione sia possibile, purché non comporti conseguenze irreversibili. Vale a dire che ogni alternativa è accettabile, per quanto radicale, purché sia in seguito possibile restaurare la situazione precedente. Realizzare un’opera materiale che altera per sempre l’ambiente, non è accettabile (a meno di un consenso eccezionale) poiché riduce le future possibilità di scelta.

I problemi della città contemporanea sono da una parte il rischio tecnologico, la tutela dell’ambiente, la qualità della vita e la conservazione della salute; dall’altra la questione più sociale della cittadinanza e dell’identità che si coniuga attraverso l’appartenenza plurima a diverse comunità il cui riconoscimento costituisce di volta in volta un problema. Oggi un libro che non affronta questi problemi non è interessante rispetto alla città di domani.

L’emergere della crisi ambientale costituisce il punto di volta accanto a quello di una nuova definizione di cittadinanza.

La flessibilità culturale e materiale

Nella città media europea sono compresenti diverse culture e diversi gruppi sociali che condividono il territorio. Il mutamento più rilevante occorso di recente nella città europea è la presenza sugli stessi territori di popolazioni con diversi modi di pensare e di comportarsi. In altre parole la crescente indifferenza del territorio rispetto alla cultura. Nella città contemporanea – e in genere nella società – nessuno si trova al proprio posto poiché il posto non appartiene a nessuno: siamo “dis-placed”, “s-piazza-ti”, fuori piazza, via dal centro, dovunque andiamo. Anche quando siamo a casa. All’indifferenziazione del luogo geografico rispetto alla cultura, si aggiunge anche l’indifferenza del tempo rispetto alle attività svolte: siamo “dis-timed”, senza cognizione del tempo; qualsiasi ora, giorno o mese è buono per fare qualsiasi cosa. Un gioco di parole inglese aiuta a fornire un’immagine della situazione: con la semplice eliminazione di uno spazio tra le lettere, si passa dal “now here” (qui e adesso), al “nowhere” (da nessuna parte). L’inserimento di uno “spazio” apparentemente vuoto, ha rivoluzionato il significato delle parole. E anche quello delle città e del territorio.

La seguente descrizione, tratta da un famoso romanzo, dà un’idea appropriata della banalizzazione del territorio e delle conseguenze sul controllo sociale.

“Alle volte mi coglie il dubbio che gli automobilisti non sappiano che cosa sia l’erba, o come siano i fiori, perché non li hanno mai visti, non ci sono mai passati vicino con lentezza. Se mostrate a un automobilista una macchia verdastra, “Oh, sì” vi risponde “è dell’erba, quella!” …Mio zio una volta fu colto a guidare lentamente su un’autostrada: a settanta chilometri all’ora, andava, e lo tennero in prigione per due giorni. … Avete mai visto quei cartelloni pubblicitari alti come grattacieli ai margini delle autostrade appena fuori città? Lo sapevate che una volta i cartelloni pubblicitari erano alti al massimo sei o sette metri? Ma poi le auto sono diventate così veloci che si è reso necessario dilatare la superficie riservata alla pubblicità, perché gli automobilisti avessero il tempo di leggerla, passando”(Ray Bradbury, Fahrenheit 451, Mondadori, Milano 1978, p. 9-10).

I sometimes think drivers don’t know what grass is, or flowers, because they never see them slowly,” she said. “If you showed a driver a green blur, Oh yes! he’d say, that’s grass! A pink blur! That’s a rose garden! White blurs are houses. Brown blurs are cows. My uncle drove slowly on a highway once. He drove forty miles an hour and they jailed him for two days. Isn’t that funny, and sad, too?” … Have you seen the two hundred-foot-long billboards in the country beyond town? Did you know that once billboards were only twenty feet long? But cars started rushing by so quickly they had to stretch the advertising out so it would last.”

Quando si parla di città, elementi sociali e materiali si intrecciano inestricabilmente. La flessibilità diventa una caratteristica della città contemporanea anche sotto il profilo costruttivo.

La questione della città flessibile in termini materiali si pone sotto due punti di vista: quello delle performance funzionali ed economiche; quello degli impatti ambientali.

Se si accetta che la città contemporanea diventi (o torni a essere) un insieme di diverse comunità e stili di vita, occorre che anche il disegno incoraggi questa opzione di fondo. La realizzazione di quartieri e una pianificazione alla piccola scala deve sostituire la visione olistica della città come un’unità d’analisi e di piano indivisibile. La base per la flessibilità consiste allora nella dimensione ridotta delle unità di piano che si devono riferire a comunità dotate di autonomia e identità. Ma non servirebbe a nulla – anzi comporterebbe ulteriori guai – se non fosse associato a un’autonomia funzionale delle unità urbane. Questa opzione è caratteristicamente contraria a ogni forma di zoning e favorevole a quartieri autosufficienti per residenza e posti di lavoro. La ri-segmentazione delle città diventa necessaria nel momento in cui l’urbanizzazione si è estesa a tutto il territorio che risulta così indifferenziato. In altre parole si potrebbe usare lo slogan: fondiamo nuove città sul territorio urbanizzato decostruendo le grandi (e le medie) città.

In effetti, dal punto di vista funzionale, occorre una flessibilità che si estende alla mobilità residenziale, contrapposta a quella giornaliera che ha occupato la stragrande maggioranza degli investimenti pubblici urbani dell’ultimo secolo pressoché ovunque. Senza risolvere alcun problema, anzi ingrandendo sistematicamente quelli che si volevano risolvere. Un’agevole disponibilità dell’abitazione può consentire una maggiore facilità di adattare la città alle esigenze di ciascun gruppo o comunità. La stabilità dell’abitazione, a fianco della mobilità del posto di lavoro, ha comportato inefficienze e rigidità che si sono materializzate in quartieri dormitorio e inefficienti strutture di pendolarismo quali autostrade e trasporto pubblico ipertrofico ancorché costantemente e per definizione sottodimensionato [6].

Da queste strutture materiali funzionali si passa alla flessibilità nel disegno dei quartieri e degli edifici. Anzitutto la città flessibile dovrà costruire poco e riadattare quanto già esiste. In ogni caso le costruzioni andranno realizzate e ripensate sulla base della possibilità di essere utilizzate per funzioni diverse. La dimensione limitata dei nuovi edifici e strutture agevola la flessibilità.

Infine, dal punto di vista ambientale, la flessibilità riguarda la riciclabilità degli edifici e delle strutture nonché la rinaturalizzazione di aree degradate e artificializzate. La città flessibile è a basso impatto ambientale sotto tutti gli aspetti.

Un ambientalista utopista

La città flessibile è dunque un luogo in cui si possono esprimere e possono convivere differenze anche radicali.

I piani urbani dovrebbero consentire il massimo livello possibile di diversità. Tra queste diversità anche quella di non scandalizzarsi se permangono aree uniformi accanto ad aree diversificate. La differenza presume anche lo spazio per l’uniformità, quando richiesta o sopravvissuta. La possibilità di confrontare le diverse possibilità farà eventualmente emergere la migliore. Perché questo sia possibile, è necessario un forte impegno politico delle comunità urbane a battersi contro qualsiasi “grande piano” e persino contro i grandi interventi materiali. La sovrapposizione alle strutture della città media di opere concepite per la grande città – in termini di scala e dimensione – distrugge la diversità. È necessario contrastare questa impostazione sia che si evidenzi con governi metropolitani, per altro oggi in crisi, sia con grandi opere di trasporto pubblico e privato, sia con piani di centri direzionali o lottizzazioni vaste.Esprimendo al contrario una famosa frase del Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, si vorrebbe dire che è necessario che nulla cambi per fare una vera rivoluzione. E, in effetti, se la modernizzazione era basata su un apparente costante mutamento all’interno di un paradigma stabile e previsto, quando il cambiamento si arresterà o accadrà fuori dalle previsioni, diventerà più profondo, più reale. E si affermerà un nuovo modello di cambiamento.

Conclusione: "Be tolerant, or die!"

Il compito del pianificatore poteva essere, una volta, soltanto di descrivere il modello futuro, l'ideale cui tendere, il progetto onnicomprensivo. Oggi, l'unica realtà incontestabile è una diffusa fede nella mancanza di fede. Se un ruolo ancora esiste per una razionalità progettuale condivisa, esso si sposta dal risultato al processo. Si parla cioè di proceduralismo scientifico che - con tutti i limiti epistemologici e storici - sembra l'obiettivo massimo conseguibile in termini di ricerca di forme di razionalità condivisa.

Il relativismo non è più esclusivo di poche persone informate. Sia perché le persone informate difficilmente resistono alla tentazione di informare. Sia, soprattutto, perché, trattandosi di concetti ed esperienze aventi un concreto fondamento nella cultura contemporanea, vengono agevolmente recepiti e strumentalizzati da chi gode di rendite di posizione.

Sia pure dunque in mezzo a numerose contraddizioni che rendono infelice lo studioso razionale, ma esaltano il postmoderno, le nuove idee tracimano nelle componenti più recettive della collettività. Le istanze di piano partecipato, di decentramento e autonomia decisionale diffusa utilizzano un patrimonio culturale e un linguaggio comune, acquisendo così forza e convinzione. Domani, forse, si costruirà un'imprevista razionalità a posteriori, già teorizzata in passato.

"Tutto ciò che è solido si scioglie nell'aria". Oggi, più che mai, la materialità solubile delle opere si stempera nella stabilità dei processi. Sono questi ultimi che le rendono possibili, ovvero negano ai manufatti il diritto a esistere. L’Utopia del XXI secolo consiste nel potersi spostare da un’Utopia all’altra: vogliamo dire un’”Utopia debole”?

Notas 

[1] Alcune immagini usate per queste note sono tratte da una breve recensione del libro della Martin apparsa in rivista divulgativa australiana nel 1995.

[2]Persino il modo di fare ginnastica – che rappresenta uno specifico rapporto con il corpo – è emblematicamente mutato negli ultimi anni. Da esercizi artificiosi, rapidi e in definitiva violenti, tesi a rinforzare il corpo, si è passati a pratiche quali lo stretching, l’aerobica e ad allenamenti che cercano in genere un miglioramento della qualità fisica attraverso un graduale e lento adattamento che rende il corpo prima di tutto elastico. Prima si diceva che un esercizio ginnico “più faceva male ai muscoli, più migliorava le prestazioni”. Una specie di violenza su se stessi. Oggi questa teoria è completamente abbandonata. Piuttosto, nelle versioni più esagerate, si ricorre a interventi di vario genere, dai farmaci alla chirurgia, per modificare il corpo.

[3] Purtroppo, succede ancora troppo spesso che gli insediamenti industriali e commerciali siano costruiti e poi abbandonati, con grave spreco di risorse territoriali. Il tema della flessibilità, nel caso del nostro corpo, rappresenta un esempio più che estremo, emblematico.

Ma di flessibilità si parla ormai da tempo in economia e in organizzazione industriale. Se ne parla quando si ritiene che l’impresa debba potersi ingrandire o ridurre in tempo rapidissimo a seconda delle necessità del mercato e delle tecnologie. Con questa impostazione sono in linea i nuovi contratti di lavoro che favoriscono la mobilità della manodopera, non si curano della fidelizzazione all’impresa e scaricano sul settore pubblico i costi di formazione. La flessibilità delle imprese include anche le unità materiali di produzione almeno da due punti di vista. L’impresa deve essere in grado di delocalizzarsi rapidamente seguendo spostamenti minimi di redditività in relazione al territorio in cui è insediata: tassi di interesse, incentivi nazionali e regionali, disponibilità di risorse compresa la manodopera e i suoi costi di riproduzione, eccetera. Inoltre la flessibilità è intesa in termini di adattabilità delle tecnologie e delle strutture materiali ai cambiamenti indotti dal mercato, dal progresso tecnologico e dalle caratteristiche della forza lavoro e del territorio. Di conseguenza l’architettura delle strutture materiali in cui le imprese vengono condotte, deve obbedire a criteri di agevole riconvertibilità. Infatti, se un’impresa si trasferisce in un’area in cui può conseguire maggiori profitti, la vendita o in genere la riutilizzazione dei luoghi in cui operava deve comunque essere il più vantaggiosa possibile altrimenti il costo del trasferimento o della riconversione cresce. Questo vale per i siti di produzione materiale - capannoni, zone industriali e relative infrastrutture - al pari dei luoghi in cui sono collocati gli uffici e le costruzioni che li ospitano. Di questo l’architettura si è già da tempo occupata così che gran parte dei nuovi edifici consentono di modulare gli spazi al loro interno anche prima dell’affitto e della vendita di essi. E comunque gli investimenti in strutture fisse puntano al risparmio piuttosto che alla durata. Allo stesso tempo, alla costruzione e acquisto degli immobili per l’esercizio dell’impresa, si sostituiscono procedure di carattere finanziario per cui l’elemento materiale perde consistenza rispetto a quello funzionale.

[4] Il titolo riecheggia un altro famoso titolo. Dietro le parole del titolo c’è una storia nemmeno troppo sottintesa. Vi sono nascosti un urbanista utopista e due geografi inglesi, i quali hanno esercitato una fondamentale influenza sui miei studi geografici. Il titolo della conferenza di Boulder risuona come il famoso pamphlet di Ebenezer Howard, pubblicato alla fine del XIX secolo come Garden Cities of To-morrow. Lo stesso titolo, quasi un secolo dopo, fu parafrasato da Peter Hall, Cities of Tomorrow, pur proponendo un’analisi e un’impostazione molto diversa. Naturalmente quanto scrivo è anche ispirato all’insegnamento di David Harvey e ai suoi numerosi saggi sulla geografia postmoderna.

Come non posso essere così ingenuo da riproporre le città giardino con più di un secolo di ritardo, non posso altrettanto essere tanto avventato da proporre una paradossale pianificazione o utopia postmoderna. Il razionalismo utopista stracolmo di ottimismo e desiderio di cambiare il mondo, sarebbe assolutamente antitetico rispetto alla sconfortata e tendenzialmente rinunciataria condizione postmoderna.

[5] Negli ultimi anni il maggiore cambiamento sembra stare nel fatto che i postmoderni hanno perso anche l’allegria e la leggerezza che li caratterizzava. Forse a causa della crisi mondiale, del terrorismo o chissà perché.

[6] I pendolari di oggi si lamentano dell’inefficienza delle strutture di trasporto che vorrebbero più efficicenti. Negli anni sessanta protestavano per avere un’abitazione prossima al posto di lavoro. O, altrimenti, un posto di lavoro vicino all’abitazione. La disperazione per non vedere risolto il problema del lavoro, ha costretto i cittadini ad accontentarsi di un rimedio meno doloroso piuttosto che di una soluzione del problema. Come se una persona che viene bastonata, si ribella soltanto per richiedere un bastone meno duro.

 

Referencia bibliográfica

POLI, Corrado. Tollerare i tolleranti. La città media europea: un'alternativa alla globalizzazione. Diez años de cambios en el Mundo, en la Geografía y en las Ciencias Sociales, 1999-2008. Actas del X Coloquio Internacional de Geocrítica, Universidad de Barcelona, 26-30 de mayo de 2008. <http://www.ub.es/geocrit/-xcol/183.htm>


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