Biblio 3W
REVISTA BIBLIOGRÁFICA DE GEOGRAFÍA Y CIENCIAS SOCIALES
Universidad de Barcelona 
ISSN: 1138-9796. Depósito Legal: B. 21.742-98 
Vol. XVI, nº 952, 5 de diciembre de 2011

[Serie  documental de Geo Crítica. Cuadernos Críticos de Geografía Humana]

 

MEDITERRANEO, REGIONE, SVILUPPO: UNA BREVE RIFLESSIONE

 

Luca Salvati 
Dipartimento di Studi Geografici, Linguistici, Statistici, Storici per l’Analisi Regionale
Università degli Studi di Roma ‘La Sapienza’
luca.salvati@uniroma1.it
 

Recibido: 15 de marzo de 2011. Devuelto para revisión: 15 de abril de 2011. Aceptado: 10 de mayo de 2011.


 Mediterranean, region, development: a brief commentary (Abstract)

This paper is a hommage to a classical Mediterranean framework developed in early-1990s by several geographers throughout Southern Europe. The present study reviews this approach by discussing the contribution from scholars like Leontidou, Pace, and Minca, among others. An original approach to Mediterranean regional issues was proposed here according to the most typical characters of the ‘southern territories’ in several perspectives: social, environmental, and economic.

Key words: Mediterranean region, economy, society, Europe.


Meditarranea, region, sviluppo: una breve riflessione (Riassunto)

Questo contributo rappresenta un omaggio ad un filone classico di studi Mediterranei sviluppato negli anni novanta in ambito geografico, attraverso una revisione ed una discussione critica dei principali contributi forniti da studiosi come Leontidou, Pace e Minca, tra gli altri. Il contributo suggerisce inoltre un approccio originale allo studio dei temi di geografia regionale del Mediterraneo partendo da una caratterizzazione dei suoi territori da svariati punti di vista, sociali, economici ed ambientali.

 Termini chiave: Mediterraneo, meridione, economia, società, Europa.


Méditerranée, région, développement (Résumé)

Cet article est un hommage à un cadre méditerranéen classique développée au début des années 1990 par des géographes de plusieurs dans le sud de l'Europe. La présente étude analyse cette approche en discutant de la contribution des chercheurs comme Leontidou, Pace, et Minca, parmi des autres. Une approche originale aux questions méditerranéennes régionales a été proposé ici d'après les caractères les plus typiques de la “territoires du Sud”, dans une perspective sociale, environnementale et économique.

Paroles-clé: Méditerranée, région, économie, societé, Europe.


Paradigmatico e al tempo stesso metaforico, il Mediterraneo è stato il palcoscenico di numerosi studi empirici che si sono riappropriati, anche attraverso un ampio ricorso agli strumenti quantitativi, delle regioni urbane del mezzogiorno d’Europa [1]. Molti autori ne hanno ricompreso le peculiarità, sospese ancora tra piano e spontaneismo, fra (nuovo) sviluppo endogeno e (vecchia) illegalità diffusa [2].

Quanto il dibattito sulle regioni urbane meridionali possa essere scisso dal dibattito più generale sul Mediterraneo, seppure affrontato ampiamente nel passato [3], resta un elemento cruciale di riflessione. Nei fatti, definizioni sfuggenti, confini ambigui, trame territoriali variegate, culture differenti a confronto, rendono l’analisi su cosa sia davvero il Mediterraneo assai ardua [4].

La consapevolezza di essere ancora in balìa di difficoltà interpretative rende evanescente la ricerca di definizioni di oggetti geografici tipici del Mediterraneo quali, ad esempio, le sue città [5]. D’altronde, secondo Conti e Segre [6], la definizione dello spazio Mediterraneo rappresenterebbe un vero e proprio punto di vista, un’atto di fiducia nell’esistenza di una scala appropriata all’analisi delle sue particolarità, in grado di individuarne confini fisici adatti a contenere fenomeni omogenei [7]. In quest’ottica, il Mediterraneo (e le sue città) emergono come concetti flessibili, le cui estensioni territoriali variano secondo la prospettiva usata [8].

Tale consapevolezza, tuttavia, non deve limitare l’analisi dei sistemi urbani e delle trame regionali del Mediterraneo, quanto piuttosto stimolare una critica delle definizioni, delle perimetrazioni, delle rappresentazioni cartografiche, talvolta anche delle metafore geografiche a cui siamo abituati: questo per superare il carico di ambiguità e di evocazioni suggestive che è proprio di molti discorsi sul meridione. Tali considerazioni introducono l’obiettivo di questo lavoro, che vuole rappresentare, pur in un approccio riflessivo e per certi versi critico, un omaggio ad un filone interpretativo ‘altro’ rispetto ai paradigmi dominanti di stampo anglosassone, sviluppato soprattutto negli anni novanta ma ancora carico di spessore evocativo [9].

La linea di pensiero che vede in Pace, Leontidou e Minca gli esponenti più innovativi critica gli approcci riduttivisti di stampo post-moderno, apportando una riflessione sulla necessità di valutazioni basate su dimensioni ‘altre’, rifiutando interpretazioni stadiali e ‘convergentistiche’ proprie della letteratura omologante, accettando una revisione critica della dicotomia cultura-economia e aprendosi anche ad altre componenti (territoriali, ambientali) del dibattito sullo sviluppo [10]. Un filone interpretativo che, nonostante l’indubbia transizione di svariate regioni meridionali verso modelli convenzionali, inseriti a pieno titolo nell’economia globale, mantiene inalterata molta della sua applicabilità anche in un contesto di transizione quale quello che stiamo vivendo.

Il pensiero ‘debole’ del Mediterraneo

Un buon modo per sintetizzare questa linea di pensiero è prendere a prestito la definizione di spazio Mediterraneo che Minca [11] offre:

“potremmo pensare lo spazio mediterraneo come una sorta di nebulosa composta da una serie di reti virtuali e materiali che connettono le informazioni, le persone, i servizi e le merci con una serie di luoghi e nodi, che a loro volta dialogano con questa dimensione solo apparentemente effimera – ma assai performativa – in maniera apparentemente imprevedibile, e soprattutto ben difficilmente riconducibile alle logiche lineari con cui siamo adusi a misurare e interpretare lo spazio e il territorio”.

Il riferimento critico è ancora una volta agli approcci eccessivamente schematici dell’economia positivista, alle interpretazioni ‘geometriche’ dei rapporti fra società e territorio, al linguaggio non necessariamente esaustivo dei numeri e ad una impostazione incentrata sulla quantificazione dello sviluppo. La critica alle usuali scale di produzione degli spazi economici che troppo spesso hanno influenzano anche la scala di lettura geografica dei fenomeni urbani consente di riconoscere che

“l’ambiguità e le geometrie poetiche del Mediterraneo rappresentano la sua ricchezza e la sua forza, e non la debolezza e l’inconsistenza che la visione prodotta dalle statistiche che contano nella divisione gerarchica del pianeta sembra implicitamente attribuire a questo bacino-metafora, finendo per marginalizzarlo e disconoscerlo (…).” [12]

Gli spazi del Mediterraneo non vanno, pertanto, letti come ‘deboli’ in quanto poco performativi o dotati di scarsa credibilità e visibilità, perché difficilmente definibili attraverso la logica spaziale binaria di inclusione/esclusione e secondo la lettura lineare di tipo cartografico. Il rischio di una marginalizzazione disciplinare ed interpretativa, successiva a quella di stampo economico-produttivistico già in atto, è in agguato. Tale marginalizzazione è supportata da approcci eccessivamente quantitativi proposti da un’ottica ‘riduzionistica’. Tali approcci producono un’interpretazione anodina del regionalismo Mediterraneo, basato su elementi potenzialmente confrontabili con quelli in possesso della letteratura sui sistemi urbani del nord, ma che spesso nasconde fenomeni latenti, più difficilmente disvelabili attraverso numeri e procedure di calcolo. In questa riflessione si inserisce anche la critica alla ricerca di una delimitazione del Mediterraneo, inteso come contenitore di persone, di imprese, di istituzioni. Al concetto di confine si contrappone “la scelta dell’orizzonte come referente fondamentale per parlare del ‘nostro’ mare, di noi lungo le sue sponde, dei progetti di alcune delle sue città, alla ricerca di risposte che la geografia può aiutare a fornire e che, come sempre, lo stesso Mediterraneo saprà mettere in discussione un attimo dopo” [13].

D'altronde, volendo mantenere imparziale la nostra riflessione, non si può negare la comune consapevolezza dell’immenso ruolo del dato statistico, delle procedure comparative, della metodologia oggettiva nella comprensione dei territori meridionali. Ma, alla fine di ogni viaggio numerico in tutte le regioni del Mediterraneo, si continuano a cercare narrative, metafore, orizzonti, poiché le statistiche non hanno del tutto soddisfatto la sete di conoscenza dei tanti fattori latenti ancora in gioco, difficilmente definibili e quantificabili, che continuano a caratterizzare il mare e le sue terre [14].

La consapevolezza che molto, moltissimo, è stato scritto sul Mediterraneo e sulle sue regioni non ci rende pensierosi: accogliamo di buon grado l’invito a non scrivere sul Mediterraneo, inteso come regione preordinata, distinta, partizionabile perché fornita di confini, ma a confrontarci con metafore e discorsi potenzialmente astratti da una spazio rigidamente perimetrabile. D’altronde, la clausola prudenziale proposta da Matvejevic [15] non può essere messa in discussione: il Mediterraneo è stato già narrato, la sua storia già scritta. Ma il nostro mare continua a superare tutta la letteratura che lo riguarda.

Discorsi Mediterranei

Il Mediterraneo non è mare di solitudine, afferma Matvejevic [16], e la sua scoperta discorsiva, solitaria e al tempo stesso cumulativa, continua a mettere in rete generazioni di studiosi, una rete fatta di analisi e di racconti consolidati, stili ed interpretazioni, anche poco diverse l’una dall’altra. Il già detto è un pericolo sempre dietro l’angolo, un’inesorabile e pesante eredità: ma anche il punto di partenza, ineludibile, della nostra geografia; parte costitutiva del nostro rapporto con il mare, del nostro essere cittadini meridionali.

Per parlare del Mediterraneo, dunque, bisogna immaginarlo, più che darne una definizione, in termini assiomatici o cartografici. In questo sforzo bisogna abbandonare la rigidità dei costrutti deterministici, ridurre le lusinghe dei discorsi funzionalistici, per leggerlo “come spazio eterotopico, come un’utopia in continuo divenire, una modernità differita che si regge su un’affascinante gioco spaziale che produce ordine e anche le condizioni per la decostruzione di quello stesso ordine” [17]: in qualche modo, uno spazio senza misure, senza limiti, senza confini, come un orizzonte che si avvicina e si allontana dall’osservatore al cambiare del proprio punto di vista. Solo pensando questo mare come eterotopia, si riesce a dare concretezza ad una definizione non distorta da determinismi e funzionalismi di maniera.

Ma è anche per questo che l’esplorazione del Mediterraneo e dei suoi temi cari alla geografia non può che partire dal mare. Da quella pianura liquida che, ascoltando Braudel [18] prima e Farinelli [19] poi, mette in comunicazione le terre e bilancia l’orografia accidentata dei paesi che vi si affacciano: il mare come mezzo di comunicazione, dunque, ma anche come elemento di attrito agli scambi e come consolidatore di differenze culturali e disparità economiche, come ad esempio quelle ancora esistenti fra la sponda nord e quella sud. Il mare ancora una volta come eterotopia che spiega “la convivenza sulle sue sponde del totalitarismo e della sua resistenza, della ragione razionale e di quella ‘ragionevole’, del locale e del globale e di tutto quello che sta in mezzo, della differenza e dell’identità, della spinta inesauribile verso il progresso e del ripiegamento su ciò che è stato” [20].

Parlando del mare, gran parte della letteratura geografica, soprattutto quella urbana, si concentra sull’analisi della costa, vista come opportunità di insediamento e come esito di politiche pubbliche di pianificazione [21]. E d’altronde, se leggessimo lo sviluppo urbano tramite un’immagine satellitare ripresa di notte avremmo, oggi come ieri, la sensazione di non essere andati troppo lontani dalla realtà.

“Da un punto di vista fisico, se si esamina il bacino idrografico del Mediterraneo e soprattutto l’area biogeografica dell’ulivo, si può ritenere che vi siano elementi ambientali affini per una profondità oscillante tra i 100 e i 200 km dalla linea di costa, ma dal punto di vista delle risorse umane appare molto stimolante la visione braudeliana di un ‘Grande Mediterraneo’ dai confini sfocati, non determinato dal clima ma dagli uomini, (…) non fermati da nessun limite, e che supera tutte le barriere. La circolazione di queste risorse umane, così come quelle di beni tangibili e immateriali, disegna attorno al Mediterraneo frontiere concentriche, fino a poter parlare di cento frontiere.” [22]

Pace ci ricorda, dunque, che il principale protagonista dello sviluppo della regione è l’uomo ‘Mediterraneo’. E anche in questa visione idealista si concentrano limitatezza e approssimazione delle definizioni che crescono intorno al ‘nostro’ mare: inteso, secondo la visione classica, come prodotto dell’azione congiunta del clima e dei paesaggi, l’uomo produce a sua volta generi di vita ‘Mediterranei’, facile simulacro delle descrizioni letterarie di ogni tempo, esercitati in spazi banalizzati per la produzione di sole, in paesaggi bucolici apprezzati per l’equilibrio e l’armonia, carichi di saggezza e tranquillità.

Matvejevic [23] si fa carico di una critica a questa visione ammantata di romanticismo, sottolineando la non esistenza di una cultura identitaria, e invitando l’osservatore a cogliere con maggiore attenzione gli antagonismi e le differenze piuttosto che esaltare i tratti ‘raramente uniti e mai identici’. Il Mediterraneo è sovrapposizione, non armonizzazione, di gradienti, mai densi come altrove, di interessi, geograficamente dilatati ma collettivamente concentrati: esclusioni ed inclusioni si fronteggiano negli stessi spazi, culture si richiamano senza mai sovrapporsi.

L’analisi dei gradienti riporta alla memoria il concetto di frattura di un’omogeneità cercata e, forse, mai trovata. Un elemento di rottura è proprio quello fornito dalle città, che interrompono una similitudine di paesaggi agricoli e forestali, scarsamente infrastrutturati e originariamente a bassa densità abitativa. Un ‘salto di scala’ che è solo inizialmente demografico ed economico ma che, in realtà, investe potentemente la società restituendo un paesaggio polarizzato, in conflitto con le aree circostanti.

Il Mediterraneo appare, allora, come una geografia della frattura, che distingue gli spazi produttivi avanzati da quelli arretrati, la forza commerciale e industriale di alcune città contro la debolezza dei paesaggi rurali dediti all’agricoltura e alla zootecnia: una visione deterministica anch’essa, che peraltro non trova conferme in un territorio sempre più in transizione verso modelli policentrici, al cui equilibrio, tuttavia, iniziano a contribuire fattivamente anche numerosi paesi della sponda sud, rinvigorendo la metafora della ‘frattura’ proposta da Kayser [24].

La frattura negli spazi economici rimanda alla collocazione internazionale dei paesi che gravitano sul bacino del Mediterraneo: il loro ruolo nei sistemi globali, le irrisolte problematiche ambientali, le acute disparità territoriali, mai sopite, le divergenze sociali consolidate in un quadro di accresciuta instabilità e, talvolta, emergenza economica, ripropongono ancora oggi, ben dieci anni dopo l’entrata nel nuovo millennio, la loro condizione di semiperifericità geografica. Essa prevale nei paesi della sponda sud e attanaglia ancora alcune regioni della sponda nord, in un processo di mancata convergenza degli spazi economici e, soprattutto, dei territori rurali e periurbani verso modelli ritenuti, da svariati punti di vista, più dinamici, virtuosi, sostenibili [25].

Quindici anni fa, Arrighi e Becchi riflettevano sulla definizione della semiperiferia Mediterranea come zona di turbolenza politica, instabilità economica e sociale, secolarismo religioso e tradizionalismo cultural-popolare. Tali classificazioni possono essere tutt’ora applicate, senza differenze sostanziali con il passato, a numerose aree. E le motivazioni sono tutte nelle parole semplici di Becchi, che raffigura i paesi del Mediterraneo come “bloccati nel mezzo [fra centralità settentrionali ricche e periferia meridionale arretrata], che devono correre a velocità elevata per rimanere nella medesima posizione” [26].

Questo vincolo, non solo economico, mette in evidenza ancora con più forza la necessità di ristrutturare temi e strumenti geografici necessari per la comprensione di un complesso sistema territoriale come il Mediterraneo. Alla luce delle indubbie trasformazioni economiche, ma anche dell’impatto della moneta unica e della persistenza di politiche di sviluppo europee che molto si sono concentrate sulla periferia, dobbiamo prendere atto che la distanza di questi paesi (e ancor più quelli della sponda sud) con il nord è ancora marcata [27].

Un tema legato a quello della semiperifericità economica, e quantomai attuale in questo periodo di incertezze globali, è quello della crisi. Le regioni e le città del Mediterraneo, viste come instabili, degradate, prive di quell’intelligenza del territorio che consente di fare rete, di promuovere e innovare, di competere a livello globale o, almeno, continentale, sembrano ferme, resistenti al nuovo, impermeabili al cambiamento [28]. Posti nel mercato globale, questi territori sembrano faticare a seguire traiettorie apparentemente virtuose, incardinati in una struttura economica e sociale per certi versi arcaica, per altri inadatta a reggere la competizione con il nuovo che avanza. Si può allora parlare di crisi del Mediterraneo? Si può parlare di crisi delle regioni e delle città, che in qualche modo ne rappresenta l’esponente più ‘efficiente’ dal punto di vista economico? O forse, parafrasando Latouche, sarebbe meglio concentrarsi sulle regioni della crisi, quella crisi democratica fatta di poca partecipazione, di individualismo collettivo, di perdita dei referenti valoriali e concettuali [29], in contesti ben raffigurati da quei paesaggi ‘catartici’ delle periferie, lungo la ‘nuova’ frangia urbana che si disperde in un rurale che non c’è più?

Il ‘ritardo’ del Mediterraneo: retorica e condizioni materiali

Il presunto ritardo con cui il Mediterraneo, prima quello del nord e poi quello del sud, ha affrontato la modernità, è stato lungamente discusso; molti si sono interrogati sul significato - non metaforico - di ritardo, sostituendo a questo termine il concetto di ‘altra modernità’, una modernità che non si presta ad essere valutata e quantificata con i canoni del nord. Questi autori hanno anche introdotto l’evocativo concetto di ‘resistenza alla modernità’ [30], che si esplica attraverso linguaggi di critica alla cultura anglo-americana dominante, ma anche a forme di velata insofferenza verso regole identitarie e criteri oggettivi propri dei paesi del nord Europa e delle sue istituzioni, che tanto hanno pesato nella formazione dell’Europa unita e nell’assetto politico-organizzativo della comunità stessa. Si domanda Leontidou [31] se “le forme ambigue del post-moderno non erano forse già dominanti nelle città che si affacciano su questo mare, ben prima che l’accademia anglosassone e l’accumulazione flessibile post-fordista le codificassero come spazi del futuro?”

La debolezza delle definizioni positiviste emerge da questo e da molti altri contributi. Minca [32] afferma che il Mediterraneo si presta pochissimo alla ‘reductio ad unum delle metafore meccanicistiche di marca positivista’, mentre chiama a raccolta i geografi sui temi della narrazione dello spazio, dei confini, degli orizzonti, suggerendo critiche al linguaggio schematico e alla scala, globale e polarizzata, che condannano il Mediterraneo economico ad una posizione di ripiego.

Oltre alle definizioni, anche le misure dimostrano nel Mediterraneo una debolezza di fondo. Leontidou [33] ritiene, infatti, inappropriata qualunque classificazione importata dal ‘nord’ per comprendere le regioni meridionali: infatti, tali realtà vengono viste da una certa letteratura anglo-americana come anomale, rette da rapporti informali basati su transazioni pre-capitalistiche, segno di ritardo e di differimento dello sviluppo. Secondo la geografa greca questi stereotipi nascono proprio dall’applicazione, alle nostre città, di modelli ‘nordici’ o atlantici di sviluppo urbano, che rigurgitano in quanto ‘anomala’ qualsiasi devianza dalla traiettoria prevista dal modello stesso. D’altronde, il funzionamento anomalo di questo modello è stato messo in evidenza anche da Farinelli [34], che lo contrappone al modello razionale Europeo e nord-americano come “il riflesso di un modello che funziona addirittura all’opposto rispetto alla logica territoriale che guida lo stato moderno capitalista e centralizzato, dove l’urbanizzazione è stata interpretata di solito come espressione delle varie fasi della rivoluzione industriale.”

Superati, allora, gli ordinati schemi identitari dello spazio Europeo, abbiamo bisogno allora di mettere nuovamente a fuoco i concetti che possono contribuire a reinterpretare la condizione di semiperifericità del Mediterraneo. Ciò non implica la ricerca di altre definizioni, misure e termini originali, ma obbliga a porre nuovamente nel dibattito culturale, come pure nell’agenda politica, la valorizzazione della centralità dei territori meridionali [35]. D’altra parte, nell’ultimo decennio, il Mediterraneo ha, in parte, riacquistato il ruolo di cerniera culturale e sociale fra Europa, Africa e Medio Oriente. Gli scenari economici e geo-politici, incerti e variegati, hanno contribuito alla ridefinizione di questa centralità. Alcune regioni, soprattutto quelle più aperte agli scambi e al confronto, hanno formulato una loro proposta competitiva per riaffacciarsi nel contesto internazionale.

Ridotto il peso delle strategie di polarizzazione di attività economiche ad alto profitto ed interessi politici sovra-nazionali verso l’Europa del nord, vedremo in seguito come le zone costiere del Mediterraneo, le più tradizionalmente vocate alla competizione e al confronto, sembrano aver ritrovato, attraverso formule le più varie, una nuova dimensione di attrattività.

Rimane tuttavia forte il tema della semi-marginalità di molti sistemi regionali meridionali. Molti dei limiti fissati negli anni novanta da Becchi rimangono tuttora validi. La perdita di centralità, osservata a partire dal sedicesimo secolo, è derivata dallo sviluppo di reti commerciali, produttive, sociali, culturali, tra i paesi del nord e dallo spostamento del baricentro economico globale verso questi territori, dapprima con la fase coloniale, successivamente con la rivoluzione industriale, con l’economia post-industriale e con la globalizzazione dei mercati. Questo quadro ci ha restituito realtà territoriali nel complesso bloccate o lente nello sviluppo, ma con significativi esempi di vitalità e convergenza da cogliere proprio nei sistemi urbani costieri [36]. D’altronde, l’impetuosa crescita della popolazione che ha portato recentemente allo spostamento del baricentro demografico dal Mediterraneo del nord alla sponda sud ha un centro direttore nelle aree costiere e nelle città e rappresenta un tratto di tipicità della regione[37].

La crescita della popolazione ha posto quindi la sponda nord (e sta ponendo ora anche la sponda sud) di fronte a nuove decisive questioni, sia nella gestione degli ingenti flussi di popolazione sia rispetto alle imponenti implicazioni ambientali di questo esodo [38]. Ambiti peri-urbani, coste, spazi pianeggianti, sistemi collinari a bassa acclività, sono stati i territori della crescita demografica, come pure della lenta ristrutturazione socio-economica, in Italia come in Israele, in Spagna come in Turchia, in Grecia come in Marocco [39].

Come diretta conseguenza, le problematiche ecologiche legate alla massiccia e spontanea urbanizzazione (ad esempio, gestione delle acque reflue, rifiuti, inquinamento idrico e dell’aria) si uniscono a quelle dettate da una rapida trasformazione del territorio agricolo in spazi antropizzati ad insediamento diffuso a media e (talvolta) bassa densità di popolazione (compattazione e contaminazione dei suoli fertili, inquinamento delle falde, scarsità idrica e siccità, insostenibilità dell’agricoltura intensiva, consumo di suolo, frammentazione della terra, perdita degli elementi culturali del paesaggio) creando territori vulnerabili, dove si intreccia l’azione di differenti impatti da cui possono scaturire pericolose spirali autoalimentate verso la deforestazione, la desertificazione e la degradazione irreversibile del capitale naturale in senso lato [40].

Dal punto di vista sociale, i cambiamenti culturali, i gusti, gli stili di vita e di consumo investono le civiltà meridionali in forme assai diverse, eppure gli elementi portanti di questo social change si intersecano con una matrice di pensiero più profonda, che unisce e permea le società e le culture al di là delle religioni, delle influenze politiche dei singoli stati, dei fattori locali. Due chiavi di lettura, non le uniche ovviamente, possono essere ricercate nelle opere di Camus e Gramsci, anche con l’aiuto di una loro rilettura, proposta rispettivamente da Cassano e da Leontidou. Nonostante tali riflessioni derivino da contesti profondamente differenti, infatti, appare condiviso il richiamo a narrative comuni, a forme simili di paesaggi, a tradizioni ‘solari’, in cui la libertà riflessiva della società e l’individualismo altruista si contaminano con la pervasività dell’organizzazione (e del controllo) familiare, che ‘mantiene e rinforza la coesione di una società apparentemente sul punto di disgregarsi’ [41].

Unito alla transizione demografica e agli innegabili cambiamenti culturali, lo slittamento delle attività produttive dal settore industriale a quello terziario (più o meno avanzato) è un altro tratto dell’evoluzione recente dei sistemi socio-economici meridionali. Certamente questa trasformazione di per sé non è peculiare del solo bacino Mediterraneo. Bisogna, piuttosto, interrogarsi su quali direzioni stia prendendo tale fenomeno nelle regioni meridionali. In particolare è l’importanza del settore terziario avanzato che viene letta sempre più spesso come proxy di una realtà dinamica, competitiva, la cui affermazione nel sistema economico globale tenderà a crescere nel prossimo futuro. Nello specifico, è opportuno chiedersi qual’è e quale sarà il ruolo del terziario ‘avanzato’ nelle economie locali del Mediterraneo.

Negli anni novanta, Cardarelli [42] affermava che la terziarizzazione spinta, e soprattutto la crescita dinamica e virtuosa del settore avanzato, è solo in parte riscontrabile nei sistemi urbani meridionali. Un tratto tipico – a suo avviso – delle città Mediterranee può essere delineato quindi nella loro terziarizzazione parziale e ‘non avanzata’, nel parziale fallimento delle politiche di sviluppo economico verso la modernizzazione, la competitività, il rilancio del Central Business District, nonché lo sviluppo del turismo culturale e d’affari; in una frase, nella rinuncia agli elementi creativi per la crescita e la pianificazione. Al centro di questa mancata evoluzione veniva posta la ‘resistenza’ delle società Mediterranee alle innovazioni culturali:

“(…) in misura diversa tra il nord e il sud, tra l’est e l’ovest del Mediterraneo, [le società Mediterranee] tendono a conservare stili di vita e modelli di comportamento, individuali e collettivi, alcuni dei quali si riferiscono ad una tradizione che non sempre è la migliore sul piano dell’etica sociale e a volte sfocia nella criminalità organizzata o nell’intolleranza integralista.” [43]

A quindici anni di distanza cosa è cambiato in questo quadro? Quali città hanno davvero avviato un percorso evolutivo verso la riappropriazione di un ruolo internazionale? Quante invece hanno mantenuto inalterata la loro nicchia ecologica all’interno di un sistema Mediterraneo o esclusivamente nazionale? Quesiti che meritano un ampio dibattito ripartendo, ad esempio, dai contributi di Leontidou e Minca [44].

Dal lato produttivo il ruolo dell’economia non legalizzata ancora oggi stenta a perdere quell’importanza manifestata nel passato. Sebbene l’economia informale sia un carattere identitario soprattutto dei paesi in via di sviluppo, ciò che va sottolineato è che i tratti meridionali di questo fenomeno ne rendono l’esito profondamente diverso da quello osservato nei paesi più poveri. Lo spontaneismo Mediterraneo esprime, infatti, una dualità basata da una parte sul riconoscimento diffuso del ruolo del mercato e del capitale (o nei casi più arretrati, perlomeno dal non rifiuto dell’economia di mercato), dall’altro sul mancato riconoscimento dello stato come regolatore di tali dinamiche.

Su tale processo si incardina il ruolo della famiglia, spesso pervasivo, non solo nelle aree rurali ma anche in quelle urbane, dove le opportunità per le attività informali, prevalentemente (ma non esclusivamente) rivolte alla manodopera poco qualificata e, spesso, di sesso femminile, proliferano in un contesto non necessariamente degradato e arretrato.

“In tali realtà la regola diviene il settore informale piuttosto che la fabbrica; una regola che non consente l’affermarsi di una borghesia forte e che produce lavoratori nel settore informale invece che il proletariato. In tali contesti, la tarda industrializzazione e il raro fordismo mettono in risalto l’assenza di una ’egemonia borghese’, ma soprattutto l’eterogeneità, la polivalenza e la diversità.” [45]

In quest’ottica, il carattere di semiperifericità che contraddistingue, sebbene a diverse velocità, il Mediterraneo spinge ad interpretare in modo diverso il ruolo dell’economia informale da quello classico, rifiutando ‘la ragione senza ragionevolezza, la razionalità senza saggezza’ [46]. In una terra di connessione tra nord e sud, che funge da sinapsi ed incontro fra paesi ricchi e poveri, fra dominanti e dominati, l’economia informale ha rappresentato nel passato la via non più per la sopravvivenza di molti, già assicurata dal raggiungimento di un livello di sviluppo sufficiente e dalla presenza di meccanismi di mercato in nuce concorrenziali, ma per la promozione sociale di alcuni: protagonista è la classe di mezzo, il cui peso demografico aumenta, e che evidentemente non riesce a trarre esclusiva soddisfazione economica dal ‘libero mercato’.

In un qualche modo, l’economia informale può essere letta, dal lato delle famiglie, come meccanismo di risposta alle inefficienze del mercato ma anche all’ ‘avidità fiscale’ di uno stato relativamente inefficiente, che non mette riparo alla rilevante disoccupazione giovanile e femminile, al gap formativo, informativo ed infrastrutturale, alle pur sempre incipienti disparità reddituali e territoriali. Il mancato adeguamento salariale, soprattutto in alcuni comparti del lavoro dipendente e principalmente nelle maggiori aree urbane, dove ampi strati della popolazione risultano più esposti al rischio di povertà, consolida il quadro.

Altrove, nelle città dei paesi più avanzati, questi lavoratori godrebbero di più elevati salari, di migliori prospettive di carriera e di promozione sociale, di maggiore accesso al credito e alla proprietà immobiliare.

Dal lato della piccola e media impresa, le motivazioni sono diametralmente opposte, eppure altrettanto condivise. Eccessivo costo del lavoro, rigidità salariale, difficoltà di reperimento della manodopera, ma anche una limitata flessibilità contrattuale e importanti vincoli sindacali sono gli elementi che giustificano il ricorso all’impiego informale. Il cerchio si chiude quando si considera la provenienza sociale dei due ‘attori in gioco’: non si tratta più esclusivamente del sottoproletariato urbano impiegabile nel settore industriale da una parte e dell’alta borghesia imprenditoriale dall’altra, ma è ora in gioco, da entrambi i lati, la piccola borghesia urbana. Agendo nell’ottica di una parziale redistribuzione dei redditi e di riequilibrio sociale, le occupazioni informali non vengono riconosciute come disvalore: entrambi gli attori le considerano, piuttosto, un meccanismo sostitutivo, necessario e perciò pervasivo, all’azione dello stato. La base di controllo sociale che permette una simile contaminazione rimane la supremazia della famiglia sullo stato, l’anteposizione dell’interesse particolare o di clan (con una definizione ampia quanto si vuole) al bene comune, anch’esso preso nel senso più ampio del termine.

Dove la saldatura fra due interessi divergenti (quello del lavoratore e quello del datore di lavoro) porterà, in un contesto economico post-industriale, in cui la competitività urbana è spinta al massimo livello, è difficile da prevedere. Di certo, nella sponda nord del Mediterraneo, l’economia informale si riproduce, in parte, non in un contesto degradato e senza futuro, ma in situazioni economicamente sviluppate e che aspirano a non perdere la connotazione di paesi ricchi (o presunti tali). La differenza rispetto agli altri paesi ricchi risiede, dunque, nelle aspettative economiche e nelle politiche conseguenti, a breve e medio termine. Il pericolo che si va concretizzando è, in qualche modo, il barattare la capacità di investire, progettare, promuovere, produrre sviluppo nel lungo periodo con l’illusione di ricchezza, derivante da una disponibilità effimera nel breve periodo.

Strategie (non) retoriche

Una relativamente nuova dimensione di sviluppo, in linea con le politiche di intervento per il rilancio del Mediterraneo, si è fortemente indirizzata verso le regioni urbane, soprattutto quelle litoranee [47]. Esse hanno rappresentato tradizionalmente un avamposto della crescita economica, di strutture sociali e culturali maggiormente in grado, rispetto alle zone rurali, di garantire occupazione e benessere, di territori relativamente ben organizzati anche se ancora tradizionalmente vissuti. Oggi, in un rinnovato contesto internazionale,

“le città del Mediterraneo stanno cercando di riproporre quella seduzione e quell’atmosfera che, fra le altre cose, richiamano turisti da ogni dove, ricercando un’immagine urbana piacevole, efficiente, viva, ma anche densa di storia e di cultura. La maggior parte di queste città, in linea con le opportunità (o le minacce) che ha aperto la globalizzazione, si sta attrezzando da tempo per cercare di consolidare o migliorare la propria posizione nella gerarchia continentale, attraverso interventi sul tessuto urbano che non di rado vengono approntati in occasione di grandi eventi dedicati alla cultura, considerata in tutte le sue sfaccettature.” [48]

Ma per mettere i sistemi regionali del meridione al centro di questo processo di riconquista di centralità (o, eventualmente, di ricerca di una nuova definizione di centralità) è opportuno continuare a farsi suggestionare dalle ‘assonanze del Mediterraneo’ [49], consci che il sistema di specificità ed emergenze, di unicità e peculiarismi, che ogni regione Mediterranea offre ai suoi visitatori, è il valore aggiunto del territorio su cui basare la (ri)conquista di una nicchia internazionalmente riconosciuta nel turismo, nella cultura, nella gestione dei grandi eventi, ma anche e soprattutto nell’immagine complessiva delle città [50].

La riconquista della centralità si consolida attraverso una strategia, che si articola in progetti che si strutturano e si sedimentano nel tempo. La fede nell’esistenza di una sorta di universalismo Mediterraneo, la celebrazione di una radice latina nell’identità cozzano contro questa strategia [51]. D’altra parte, la grande strategia euro-mediterranea, a partire dagli elaborati degli anni settanta fino alla Dichiarazione di Barcellona del 1995, pur riprendendo la visione Braudeliana di un grande Mediterraneo (del nord), non ha ancora condotto alla condivisione di pratiche e regole in vasti campi della politica, delle istituzioni, della società. Da una parte, rimangono troppo periferici rispetto a questa strategia i paesi della sponda orientale e meridionale. Dall’altra, i paesi della sponda settentrionale, con i loro quadri regionali e nazionali, faticano ad amalgamarsi ad un nord Europa sempre più centro delle dinamiche globali.

Va abbandonata, allora, una sorta di mediterraneismo, ovvero “una lettura essenzialista e sostanzialmente esotica dell’uomo e delle atmosfere mediterranee, che finisce per marginalizzare entrambi in spazi statici della memoria” [52]. Va anche abbandonata la tendenza a dare per scontata l’esistenza braudeliana di un Mediterraneo unificato da poche caratteristiche chiave, per dare spazio invece ai numerosi Mediterranei delle coste e dei territori interni, e soprattutto delle tante città, una diversa dall’altra, ma anche così peculiari rispetto ai loro referenti extra-regionali. “Nonostante le divisioni e le fratture, nonostante il kitsch e lo storicismo sentimentale, nonostante la sua apparente marginalizzazione dai grandi disegni geopolitica dell’Occidente che parla inglese, nonostante l’inutilità di definirne un confine certo (…), il Mediterraneo rimane un referente irrinunciabile” [53] nelle strategie di sviluppo, un referente che parla male l’inglese e che continua ad esprimersi in linguaggi non totalmente allineati; ma anche un referente necessario per mantenere la centralità del nord, per mitigarne il pensiero unico. 

Verso una sintesi

C’è da chiedersi, allora, se per il meridione sia ancora così ragionevole il più classico dei confronti, quello con le realtà del ‘Nord’. Se ipotizziamo di utilizzare quei quadri territoriali (ammesso che sia possibile delinearne alcuni di sintesi, con grandezze e parametri condivisi) come benchmark di riferimento, scegliendo specifici targets di studio o di policy, il confronto può avere una qualche utilità. Tuttavia, attribuire a tali realtà un elemento in più, quello della ‘buona pratica’ da seguire nei campi dell’architettura, dell’urbanistica, dell’economia, della società e del territorio, può essere invece pericoloso, anche se questo appariva, almeno fino a pochi anni fa, un percorso relativamente battuto nella pratica [54]. Costringere le regioni Mediterranee a divenire ‘copie conformi’ del nord è stata una tentazione di molti, rinnegando tradizioni culturali, tessuti urbani peculiari, pratiche sociali consolidate.

Ciononostante, i discorsi sulle regioni meridionali, periferiche e talvolta ‘secolariste’ rispetto ai più attivi contesti nord-Europeo e nord-Americano, economicamente povere ma tradizionalmente vivaci, demograficamente dinamiche ma poco inclini alla pianificazione, con un rapporto egemonico sul territorio circostante, si sono moltiplicati negli anni novanta, un periodo che ha coinciso con la massima affermazione del ‘paradigma urbano Mediterraneo’. Tale paradigma, sviluppato in una molteplicità di concetti e di definizioni, combinazioni di tradizione, modernismo e post-modernismo, prende le distanze da una lettura lineare – secondo regole tradizionali anglosassoni o comunque ‘nordiche’ – dell’urbanità meridionale [55].

Un elemento di dibattito, forse quello che maggiormente esprime la sintesi della letteratura del periodo, è legato al concetto di post-modernità espressa dalle città Mediterranee, una condizione che Leontidou [56] esprime come ‘reazione alla modernità’. Tale condizione ha portato ad una nuova modernità, intesa come alternativa culturale al modernismo tradizionale, frutto del centralismo Europeo e della visione ‘a senso unico’ del mondo americano [57]. Gli spazi urbani sud Europei sono stati per molti anni incubatori di questa cultura, forgiandola attraverso le esperienze locali, i paesaggi urbani, le soluzioni di policy, talvolta arretrate, spesso creative [58].

Il passaggio al nuovo millennio ha portato, da una parte, ad una rinnovata consapevolezza delle tematiche urbane e regionali del Mediterraneo, anche grazie ad un’opera costante e puntuale di sistematizzazione dei concetti [59] e di rinuncia a tassonomie forzate [60].

D’altra parte, gli anni più recenti hanno anche sancito un riorientamento degli indirizzi disciplinari verso nuove correnti di pensiero, più orientate ai modelli socio-economici propri del territorio policentrico, equilibrato e competitivo. Su tale riorientamento ha influito anche la letteratura sull’organizzazione e l’evoluzione delle ‘città globali’ [61], prese come esempio di modernità, efficienza, competitività [62]. I modelli culturali propri delle ‘creative cities’ [63] e l’adesione ad essi manifestata da alcune regioni (urbane e non) hanno ulteriormente contribuito a far emergere filoni interpretativi alternativi al paradigma stereotipato e tradizionalista della città Mediterranea [64].

Quando la scala di lettura dei fenomeni geografici e dei processi socio-economici si amplia a comprendere regioni più estese, ecco che il Mediterraneo ci regala ancora spunti di studio ed elementi di riflessione degni della sua unicità. Le regioni meridionali, infatti, sono ancora protagoniste: così morfologicamente e funzionalmente diverse dalle ‘global city-regions’ colte dalla letteratura anglosassone [65], eppure così dinamicamente in transizione, dai tradizionali modelli monocentrici e compatti, verso insediamenti squisitamente diffusi: protagoniste di un modello policentrico in alcuni casi immaturo e in molti altri solo in nuce, ma che promette di essere un riferimento per i futuri studi sullo sviluppo urbano [66].

Come le regioni Mediterranee si inseriscono in questo nuovo dibattito, come esse si conformino, in parte o del tutto, alle tendenze in corso nei paesi anglosassoni, è argomento degli studi più recenti [67]. Omologazione o peculiarismo, convergenza o divergenza, adattamento o resilienza, sono le tendenze che ci si sforza di indagare, da vari punti di vista, rispetto a territori dalle trame probabilmente semplificate rispetto alle regioni globali, ma pur sempre complesse e intricate nei contrastanti punti di forza e nel contempo di debolezza territoriale. Quel miscuglio di forza che viene dal passato e di debolezza che si sedimenta nel presente e si proietta nel futuro è nel patrimonio genetico dei territori Mediterranei; forse è questa la chiave di lettura che affascina di più nello studio di organismi complessi e quasi inarrivabili. Ma per questo è necessario porre quesiti, formulare ipotesi, ricercare dati statistici, ma anche ausili fotografici e narrative, secondo un approccio multidimensionale, sulla cui utilità non possiamo che concordare con Minca [68].

Le regioni Mediterranee, intese dunque non come paradigma formalizzato di analisi, ma come necessario – e tuttora valido – punto di distinzione rispetto ai modelli di sviluppo propri dei sistemi più sviluppati, si pone al centro dell’attenzione nell’assenza di un framework unificante, ma nella consapevolezza che solo un’analisi comparativa delle diverse traiettorie regionali possa formare un patrimonio geografico di sintesi, in un contesto di forte eterogeneità e di specificità non assimilabili a percorsi interpretativi comuni [69]. Le ipotesi e le riflessioni proposte in questo lavoro rappresentano un contributo ad una migliore definizione, interpretazione e (ove possibile) gestione di un processo così complesso. I suoi contrasti, da leggere in una multidisciplinarietà militante, sono forse gli elementi che stimolano maggiormente in questa lettura.

Come emerge dalle nostre considerazioni, l’evoluzione socio-economica ‘lenta’, se riferita ai referenti concettuali e ai quadri territoriali settentrionali, rimane uno dei grandi temi della geografia Mediterranea. Forse potrebbe essere considerata, pur nella sua relativa eterogeneità territoriale, un carattere che qualifica, secondo una visione possibilmente unitaria, la regione Mediterranea. O forse, secondo la pragmatica visione Kayseriana, ritardo, lentezza, persistenza sono solo elementi in più per rivivere quella frattura che il Mediterraneo conosce già.
 

Note

 [1] Viganoni 2007

[2] Fuschi 2008

[3] e.g. Leontidou 1993, 1995, 1996

[4] Matvejevic 1996

[5] Minca 2004

[6] 1998

[7] Braudel 1987

[8] King et al. 1997

[9] Farinelli 1998

[10] Leontidou 1984, 1990, 1993, 1995, 1996; Cardarelli 1996; Pace 1996, 2002; Minca 2003, 2004; Giaccaria e Minca 2010

[11] 2004

[12] Minca 2004

[13] Minca 2004

[14] Ribeiro 1972

[15] 1996

[16] 1998

[17] Minca 2004

[18] 1987

[19] 1998

[20] Minca 2004

[21] Talia 1998

[22] Pace 1996

[23] 1996

[24] 1996

[25] Fuschi 2008

[26] Autori Vari 1995

[27] Salvatori 2010

[28] Kourlourios 2003

[29] Giaccaria & Minca 2010

[30] ad esempio Leontidou 1996

[31] 1993

[32] 2004

[33] 1995

[34] 1998

[35] Muscarà 1986

[36] Trojn 1997

[37] Autori Vari 1995

[38] Viganoni 2007

[39] Fuschi 2008

[40] Faggi 1991

[41] Pace 1996

[42] 1996

[43] Cardarelli 1996

[44] 1993 e 2004

[45] Pace 1996

[46] Latouche 2000

[47] Talia 1998

[48] Albanese 2008

[49] Minca 2004

[50] Viganoni 2007

[51] Muscarà 1998

[52] Minca 2004

[53] Minca 2004

[54] Pace 2002

[55] Leontidou 1995

[56] 1996

[57] Salvati 2010

[58] Gargiulo & Salvati 2010

[59] Pace 2002

[60] Corna Pellegrini 1998

[61] Sassen 2001

[62] Hall & Pain 2006

[63] Vicari Haddock 2004

[64] Leontidou 1990

[65] Hall 1997, 2001; Scott 2001

[66] Cori & Lemmi 2001

[67] e.g. Longhi & Musolesi 2007

[68] 2004

[69] Miani 1998

 

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Ficha bibliográfica:

SALVATI, Luca. Mediterraneo, regione, sviluppo: una breve riflessione. Biblio 3W. Revista Bibliográfica de Geografía y Ciencias Sociales. [En línea]. Barcelona: Universidad de Barcelona, Vol. XVI, nº 952, 5 de diciembre de 2011. <http://www.ub.es/geocrit/b3w-952.htm>. [ISSN 1138-9796].